I grandi problemi, di carattere militare, con i quali si doveva scontrare ogni città greca erano fondamentalmente due: In primo luogo c’era l’endemica tendenza ad essere sempre in guerra, in secondo la necessità di creare eserciti composti da uomini che erano qualunque cosa tranne soldati esperti.
Queste necessità erano dovute principalmente a motivi di carattere politico ed economico: la figura del soldato professionista non era molto diffusa e di solito le truppe erano composte da comuni cittadini che – nella vita di ogni giorno – appartenevano ad ogni classe sociale. L’utilizzo di questi soldati comportava l’indubbio vantaggio dell’affidabilità politica – che tanto mancava nell’esercito professionista romano – e poneva degli obblighi morali ai singoli soldati, che in caso di fuga avrebbero abbandonato parenti, amici o amanti. Il mantenimento di un esercito professionista inoltre, risultava essere un continuo esborso di talenti, senza contare che l’impiego permanente degli uomini al fronte avrebbe gravato sul normale ciclo economico della città.
Di contro, si doveva trovare un sistema di combattimento il cui punto di forza fosse la coesione del gruppo, non potendo contare sulle scarse capacità individuali.
Alla luce di queste considerazioni i greci crearono la figura dell’oplita: un soldato che sopperiva all’inesperienza con una pesante corazza (anche più di 20 Kg) e un’arma di facile utilizzo come la lancia. In più – per limitare ulteriormente le possibilità del singolo soldato – lo sistemarono in una struttura granitica come la falange, che non prevedeva nessun estro personale e si basava unicamente sul gruppo.
L’oplita
L’equipaggiamento dell’oplita era composto da: una corazza anatomica di metallo divisa in due parti e legata tramite cinghie di cuoio e anelli metallici, bracciali e schinieri di metallo, un elmo molto coprente e adornato con cimieri e criniere di vario genere, e uno scudo rotondo rivestito di bronzo, di forma ellittica, del diametro di circa un metro. L’equipaggiamento offensivo era composto da una lunga lancia di legno, lunga circa due metri e mezzo, con una punta di bronzo o ferro su entrambe le estremità, più grossa sulla parte frontale e più piccola dietro. La punta secondaria serviva nell’eventualità – per nulla remota – che la lancia si spezzasse durante il primo impatto. In questo caso si poteva girare la lancia e usare la punta di riserva. Se anche questa seconda punta risultava inutilizzabile, in alcuni casi si poteva far ricorso ad una spada corta. Questo espediente veniva spesso usato dalle falangi spartane, anche se a poco serviva contro le massicce corazze degli opliti.
Ogni oplita doveva far fronte da solo al proprio armamento, e tendeva a personalizzarlo con dipinti o modifiche tecniche. Nell’insieme dunque, le formazioni oplitiche apparivano abbastanza variopinte. Le armature potevano essere costituite da semplici pezze di lino incollate e successivamente coperte da uno strato di cuoio indurito, sul quale alcuni aggiungevano placche metalliche di vario genere. L’elmo poteva essere sostituito con uno di cuoio, mentre lo scudo restava invariabilmente di legno. In generale, tutti puntavano all’equipaggiamento più pesante possibile, dunque nella maggior parte dei casi è corretto pensare all’oplita in assetto di battaglia, equipaggiato con tutto ciò che gli era stato messo a disposizione.
L’oplita dunque era una sorta di carro armato. Questo mette subito in risalto un problema pratico: l’enorme peso dell’equipaggiamento non permetteva di fare lunghi scontri, e dopo solo poche decine di minuti – specialmente nella calura estiva – un soldato era completamente esausto e non più in grado di combattere. Di solito ogni oplita aveva un inserviente che portava l’armatura, e lo aiutava ad armarsi subito prima della battaglia. Ma se questo da un lato riduceva il problema dell’equipaggiamento, dall’altro ne creava uno nuovo: portarsi dietro un aiutante, che in alcuni casi era seguito da un asinello o da un cavallo, significava una bocca in più da sfamare e alla bisogna un animale da accudire per ogni singolo soldato. Contando che i mezzi di trasporto dell’epoca erano quelli che erano, la difficoltà logistica non era da poco.
La tecnica della falange greca
La falange greca è uno dei primi esempi di formazione militare organizzata. Era costituita da opliti molto ravvicinati tra di loro e posti a quadrato, che utilizzando le lunghe lance e la pesante corazza, creavano una sorta di riccio corazzato. L’unico scopo tattico era quello di scontrarsi il più violentemente possibile con il nemico e sfaldarne la formazione.
In una battaglia di falangi l’elemento che distingue il vincitore dallo sconfitto è quasi esclusivamente la coesione della formazione: se gli uomini rimangono compatti e saldi va tutto bene, altrimenti iniziano i problemi. Ma tenere la coesione di una falange è comunque cosa più facile a dirsi che a farsi.
Gli opliti – le cui file prevedevano molto di rado degli esperti soldati – solitamente si trovavano combattuti tra l’impulso di scagliarsi contro il nemico il prima possibile per tornare a casa, e la necessità di muoversi tutti all’unisono per garantire la coesione. Ad aumentare le possibilità di sfaldare la falange si aggiungeva l’abitudine – prima della battaglia – di rinfrancarsi con del buon vino per annebbiare la paura e la sensazione di isolamento che dava il tipico elmo corinzio, assai coprente e limitante per la vista e l’udito.
Una ulteriore difficoltà pare fosse il semplice avanzare diritti: secondo Tucidide, nella narrazione della battaglia di Mantineia del 418, gli opliti cominciarono ad appoggiarsi talmente tanto al compagno sulla destra – per poter sfruttare il più possibile la copertura del suo scudo – da imprimere alla falange una marcata traslazione verso quel senso. In pratica, l’intera formazione finì per avanzare in diagonale.
Il terreno era un’altro elemento molto importante: una falange risultava efficace solo su un terreno completamente piatto. Se questa condizione veniva meno, bastava una buca, una cunetta, o semplicemente un masso sporgente per creare delle aperture nella struttura. Se poi un soldato cadeva, si rischiava una scena da candid camera: decine di opliti pesantissimi accartocciati uno sull’altro.
Infine, un terreno aperto apriva i delicatissimi fianchi ad eventuali attacchi, mentre al contrario soltanto un terreno stretto creava la situazione ideale, come ad esempio le Termopili.
Il risultato dello scontro frontale tra delle falangi era veramente come giocare un terno al lotto: gli elementi determinati dalla fortuna erano preponderanti, come abbiamo visto gli imprevisti possibili erano molti e chi li subiva normalmente veniva sconfitto. Se comunque lo scontro si risolveva senza particolari problemi, quello che accadeva normalmente era lo sfaldamento immediato di uno dei due schieramenti – che portava all’immediata fuga dei malcapitati – oppure violento scontro scudo contro scudo, dove tutti spingevano allo scopo di far cedere gli avversari, e dove le prime file cercavano di colpire gli avversari con le lance, le spade, o addirittura a calci e pugni. Questo confronto durava fino a quando una delle due formazioni non cedeva e si dava alla fuga.
Lo schieramento della falange e il suo utilizzo in battaglia
I greci non amavano servirsi delle armi da tiro: la loro concezione della guerra li spingeva al confronto faccia a faccia col nemico, piuttosto che colpirlo – vigliaccamente, secondo loro – da lontano. Una visione eroica degli scontri che troverà ampio spazio fino all’epoca dei cavalieri medioevali, ma non si può dire che in ambito puramente militare sia un bene. Al contrario presenta consistenti svantaggi, e anche per l’esercito greco fu una delle sue più grosse debolezze.
Gli opliti ad ogni modo si erano inventati un sistema per ridurre il pericolo delle frecce nemiche: muovendo le lance in posizione verticale, alcune frecce picchiavano contro le aste e venivano neutralizzate.
Un altro punto debole dell’esercito greco era la scarsa presenza della cavalleria che – normalmente male armata ed esigua di numero – era utilizzata solo per compiti secondari e di minimo interesse tattico. Le motivazioni del modesto uso che i greci riservavano alla cavalleria, sono da una parte legate a quella stessa filosofia di guerra che prediligeva il corpo a corpo – e dunque la fanteria – e dall’altra a causa della scabrosa conformazione del terreno locale, che difficilmente creava condizioni adatte ad esprimere al meglio il potenziale di questa unità.
Risulta dunque evidente che nella maggioranza dei casi un esercito greco era composto quasi esclusivamente – se non totalmente – da opliti schierati a falange. Questa predilezione per un solo tipo di arma, finì per risultare estremamente penalizzante, soprattutto di fronte ad eserciti più dinamici, flessibili, e in grado di sfruttare la scarsa adattabilità in combattimento delle fila greche. Si deve comunque tener conto che, nel periodo di poco precedente all’egemonia macedone sulla penisola, l’arte della guerra cominciò ad evolversi, vennero creati corpi di cavalleria più consistenti e fanteria più leggera chiamata i pelasti.
L’utilizzo della falange in battaglia era abbastanza semplice: si schieravano le forze in campo e le formazioni avanzavano il più dritto possibile verso il nemico. Non pensiate che i generali greci studiassero strategie di qualche genere per vincere le battaglie, in realtà gli unici parametri con il quale si confrontavano erano l’ampiezza del fronte e la profondità dello schieramento. Era dunque molto difficile governare le truppe in battaglia: come ho avuto già modo di dire l’elmo rendeva difficile la comunicazione, inoltre non era prevista una vera e propria gerarchia di comando: a parte un comandante della falange – che in realtà aveva poche possibilità pratiche di controllo – non esistevano altri “ufficiali”.
L’assenza di un comando efficiente era una delle differenze principali con le falangi macedoni. In queste ultime, infatti, esisteva una precisa piramide di comando, che capillarmente inviava ordini a tutti gli elementi della formazione. Ciò permetteva alle falangi di plasmarsi durante la battaglia a seconda delle necessità, con inoltre la possibilità di cambiare direzione facilmente. La stessa cosa non capitava nelle falangi greche, che parevano possedere quasi una vita propria, come un corpo senza un cervello, ed è molto raro leggere cronache che le riguardano dove si raccontano manovre tatticamente interessanti.
Cerchiamo di entrare nei pensieri di un generale (coscienzioso) che si appresta alla battaglia: la sua prima preoccupazione sarebbe stata la valutazione del terreno, se fosse stato adatto o meno alle falangi. Se anche l’avversario fosse stato greco il problema non si sarebbe posto, poiché anche la parte nemica avrebbe avuto bisogno delle stesse caratteristiche di terreno. Ma se l’avversario avesse avuto a disposizione truppe di tipo differente la cosa sarebbe potuta diventare determinate.
In secondo luogo, avrebbe cercato di evitare che il nemico aggirasse la formazione: la falange greca avrebbe automaticamente perso se fosse stata attaccata ai fianchi o dietro, era dunque necessario creare una formazione che avesse un fronte largo almeno quanto quello avversario.
Come terzo e ultimo punto si sarebbe dovuta decidere la profondità dello schieramento, ovvero il numero delle file che avrebbero composto la falange. Pur non essendo una tattica diffusa (al contrario era ancora così poco usata da risultare persino virtuosistica), c’era la possibilità di variare la profondità delle falangi per rafforzare una zona dello schieramento piuttosto che l’altra. Strategicamente era un arma vincente: basti pensare che la città di Tebe riuscì a mantenere per un certo periodo una forte egemonia, sotto la guida del generale Epaminonda. Egli era solito schierare l’ala destra in modo che risultasse di profondità doppia rispetto al resto dell’esercito, in questo modo riusciva a sfondare il lato sinistro del nemico e aggirarlo.
Filippo II di Macedonia – che all’epoca risiedeva proprio a Tebe – s’impadronì egregiamente di questa tecnica, la perfezionò, e la trasmise al figlio Alessandro che – utilizzandola – conquistò mezzo mondo.
Indipendentemente dai problemi intrinseci della falange greca, la sua creazione e attuazione è comunque da considerare come una svolta nell’arte della guerra, una rivoluzione che portò ad alcuni grandi risultati, specialmente contro i persiani.