L’evoluzione della falange e la riforma di Ificrate
Intorno al 430 A.C. in Grecia si diffusero i mercenari. Grazie a questo, cominciarono ad apparire le figure del soldato e dell’ufficiale esperto, persone che passavano la vita a combattere, e che avevano la disciplina e l’esperienza necessaria per applicare tattiche complesse, fuori portata per il normale cittadino.
Soprattutto per merito dei nuovi ufficiali mercenari si avviarono parecchie innovazioni in campo militare: durante la guerra del Peloponneso, molti si resero conto che – se ben utilizzata – la cavalleria e la fanteria leggera avrebbe potuto avere la meglio sulle pesanti formazioni oplitiche. La cavalleria poteva essere utilizzata in tattiche di aggiramento o sfondamento di grande effetto, mentre la fanteria leggera – che avrebbe mantenuto comunque la struttura di una falange – ne avrebbe guadagnato in agilità, aumentando così le capacità offensive a scapito di quelle difensive.
Un grande personaggio che segnò lo sviluppo della fanteria leggera fu Ificrate, che creò il prototipo della falange macedone. Questo generale sostituì le armature dei suoi mercenari con un giustacuore di cuoio, ridusse la dimensione dello scudo, e allungò considerevolmente la lunghezza della lance. Grazie infatti al nuovo scudo – che misurando sui 50-60 cm di diametro, poteva essere agevolmente legato a un braccio – fu possibile dotarsi di lance molto più lunghe, facilmente gestibili, ora che i soldati avevano entrambe le mani libere.
I nuovi soldati – che presero il nome di pelasti per via del nuovo scudo, detto “pelta”- avevano alcuni vantaggi rispetto alle falangi oplitiche: il loro equipaggiamento leggero li rendeva meno soggetti alla fatica, e di conseguenza potevano combattere più a lungo. Il minore peso da trasportare inoltre minimizzava parecchio il problema del terreno, rendendo più difficile al nemico l’incursione e lo sfaldamento dei ranghi della formazione. Le lance più lunghe infine, potevano colpire gli opliti per primi e tenerli a distanza agilmente. Certo, rispetto agli opliti erano meno corazzati, ma i vantaggi compensavano benissimo questo punto debole.
La nuova fanteria leggera si diffuse molto tra i mercenari – che avevano l’esperienza per poterla sfruttare – ma non venne assimilata dai cittadini, che preferivano continuare a combattere secondo la tradizione oplitica.
Sparta, la città degli opliti professionisti
In tutto il panorama militare ellenico sicuramente Sparta brillò di luce particolare. Fu l’unica città a sviluppare una struttura sociale imperniata sul mantenimento di una casta di persone – gli “eguali” – integralmente dedita alla guerra.
Fin dalla nascita un eguale era soggetto ad una serie di regole mirate a renderlo una macchina da guerra: si cominciava con una selezione delle nascite spietata (se un bambino non rispettava gli standard imposti veniva abbandonato nel bosco). Per chi veniva considerato idoneo invece, era riservato un duro addestramento che lo avrebbe accompagnato dalla fanciullezza fino al passaggio alla maggiore età – riconosciuta tramite il superamento di una prova di coraggio e resistenza fisica. Finanche in vecchiaia l’unica attività permessa all’eguale spartano era l’addestramento e la guerra.
Il sistema spartano si basava sulla schiavitù degli “iloti”, che si occupavano della produzione del cibo e degli altri lavori manuali, mentre gli eguali pensavano solo all’onore ed all’addestramento.
Indubbiamente Sparta riuscì a creare l’esercito oplitico più efficiente della storia greca, riuscirono a guadagnarsi un lungo periodo di egemonia su tutta la Grecia, e a dar vita a una fama di invincibilità che fu difficile da distruggere. Tuttavia, la loro rigidissima struttura sociale – se da una parte fu la fonte della loro forza – fu anche il motivo della loro fine: le caste erano chiuse, nessuno poteva entrare tra gli eguali se non per nascita, e la lunga serie di guerre della storia spartana portarono ad una continua – ma inesorabile – riduzione numerica della forza combattente, fino alle ovvie conseguenze.
In battaglia, gli opliti spartani avevano indubbiamente una maggiore disciplina, determinazione e resistenza fisica rispetto agli altri. Queste doti furono le uniche vere differenze tra le falangi spartane e le altre, per il resto, la tecnica rimane assolutamente la stessa. Ad ogni modo il fenomeno Spartano mette in evidenza la superiorità di un esercito professionista sulle milizie cittadine.
Le grandi battaglie degli opliti
Maratona 490 A.C.
Premesse dello scontro
Tra fine del VI secolo e l’inizio del V, la naturale tendenza all’espansione dell’impero persiano entrò in contatto con l’effervescente e indipendente cultura ellenistica. Da questo incontro non potevano che nascere forti attriti.
Inizialmente la Persia occupò le città greche sulla costa turca, successivamente Atene appoggiò una ribellione delle stesse. La rivolta venne soffocata dall’imperatore Dario, che dopo la vittoria volle punire Atene ed Eretria e contemporaneamente intimidire le altre città.
Per la spedizione venne preparata una flotta di 600 trireme comandate da Dati e dal nipote di Dario – Artaferne, a cui si unì anche Ippia – figlio del tiranno ateniese Pisistrato – che sperava di riconquistare il potere con l’aiuto persiano. La stima dell’esercito Persiano è difficile da fare visto che non viene indicata in nessuna cronaca, ma si presuppone che la spedizione comprendesse circa 10-15.000 uomini e 1000-1500 cavalieri. A questi regolari si devono aggiungere i 3-6.000 partigiani di Ippia, e forse alcuni opliti mercenari. Altre stime indicano cifre decisamente più alte – secondo me più improbabili – ovvero fino a 40.000 uomini e 3-4.000 cavalieri.
Dopo le prime vittorie la spedizione Persiana approdò nella baia di Maratona, il luogo dove cinquant’anni prima era sbarcato Pisistrato. Ippia trovò la coincidenza benaugurante, ma più beneaugurante ancora sembrò l’ampia piana presente vicino la luogo dello sbarco che – secondo le cronache di Erodoto – apparve perfetta per la pericolosissima cavalleria persiana.
Gli ateniesi allarmati dallo sbarco avanzarono sulla piana di Maratona e dopo diversi giorni – nei quali i due eserciti si schierarono invano – l’11 settembre finalmente i greci attaccarono.
Le forze in campo e gli schieramenti
Quando si legge il racconto di Erodoto la prima domanda che sorge spontanea è: dove è andata a finire la cavalleria persiana? Poiché in tutta la descrizione della battaglia non compare mai un solo cavallo persiano.
Alcuni pensano che la cavalleria fosse ancora imbarcata, perché forse i persiani avevano utilizzato le trireme come stalle per riparare gli animali. Un’altra teoria dice che la cavalleria era sparsa per il territorio, impegnata in opera di devastazione di campi (non dimentichiamo il carattere punitivo della spedizione). Qualunque sia la verità, nel fatidico giorno dello scontro probabilmente la cavalleria era altrove, e – altrettanto probabilmente – se non fosse stato così la storia sarebbe stata diversa.
Le forze persiane – come abbiamo già detto – sono difficili da determinare, ma sicuramente erano in numero maggiore rispetto ai greci: le forze greche comprendevano circa di 9-10.000 opliti ateniesi più circa 1000 opliti di Platea, dunque un tipico esempio di esercito greco composto solo da opliti.
Sulla formazione persiana si ignora quasi tutto, su quella greca sappiamo che scelsero uno schieramento più sottile al centro e più profondo sulle ali, per una larghezza totale di circa 1500 m. La profondità diversificata tra il centro e le ali fu una vera novità, non si era mai visto prima. Probabilmente, la scelta venne fatta per permettere allo schieramento di raggiungere un ampiezza tale da evitare l’accerchiamento persiano, ma non si deve sottovalutare anche la possibilità che Milziade e Callimaco – i due generali Ateniesi – avessero effettivamente elaborato un piano di sfondamento sulle ali. Non sapremo mai se lo schieramento fu solo un colpo di fortuna o una intuizione geniale, ad ogni modo, fu indubbiamente efficace.
La battaglia
La distanza tra i due schieramenti era di circa 1500 m (8 Stadi). Furono i greci ad attaccare, avanzando ad un passo insolitamente rapido per delle falangi: sembra che impiegarono circa 15 minuti per coprire la terra di nessuno, e gli ultimi 200 metri furono fatti di corsa. E’ difficile pensare che degli opliti in tenuta da battaglia possano aver corso per 1500 metri, ma cosi dice Erodoto. Indubbiamente le formazioni greche persero molta della loro coesione durante la rapida marcia, ma la velocità di avvicinamento ridusse le perdite dovute agli arcieri persiani, e fece guadagnare un impeto inaspettato agli assaltatori.
L’impatto fu tremendo, e mentre il centro greco soffriva sotto la pressione del più numeroso centro persiano, le ali avanzarono facilmente travolgendo il nemico. Lo scontro fu valutato lungo da Erodoto, ma probabilmente non durò più di 15-20 minuti. Comunque sia, le ali greche dopo lo sfondamento riuscirono – con grande stupore di tutti – a girarsi verso il centro persiano e ad attaccarlo sui fianchi.
Attaccati su tre fronti, e a rischio di essere completamente circondati, i persiani ruppero la formazione e si diedero alla fuga verso le navi.
Le perdite greche furono 192, e si pensa che il numero sia piuttosto esatto, visto che i nomi dei morti sono noti. Sulle perdite persiane si sa poco o nulla: Erodoto dice 6400 caduti, ma in molti pensano che la cifra sia abbastanza da ridimensionare, forse addirittura di un terzo, arrivando a una stima approssimativa di 1500-2000 morti.
Analisi della battaglia
Il primo elemento che spicca nella dinamica della battaglia, è che i greci furono costretti ad attaccare per primi a causa del discreto numero di arcieri nelle file persiane. L’episodio la dice lunga sull’importanza tattica di questo tipo di arma, che – lo ricordiamo – difficilmente veniva utilizzata dai greci. Dunque i persiani oltre a un numero maggiore di uomini, avevano anche il vantaggio di giocare sulla difensiva e di poter aspettare la mossa del nemico per agire di conseguenza.
Tenendo conto che il risultato di ogni battaglia è determinato sia dall’abilità di chi vince, ma forse anche di più dalla incapacità di chi perde, cominciamo ad analizzare i motivi di una cosi scarsa prestazione persiana.
I greci hanno indubbiamente avuto dalla loro il fattore fortuna: la cavalleria persiana non si è vista, e questa è una imperdonabile carenza da parte dei persiani. Durante la marcia di avvicinamento nessun incidente di particolare rilevanza ha colpito le falangi che avanzavano al massimo della loro velocità. Sembra infine che gli stessi arcieri persiani siano stati abbastanza deludenti: circa 6-800 uomini, in 15 minuti di avanzata greca, sono riusciti a fare non più di un centinaio di perdite.
Nel momento dell’impatto, il superiore equipaggiamento oplitico ha dato indubbiamente quel vantaggio che ha fatto la differenza, ma l’assoluta passività dei Persiani è stata la causa determinante della vittoria greca. Se i persiani avessero potuto contare su almeno 5-6000 uomini in più al fine di allargare lo schieramento – e in seguito avvolgere una delle due ali – probabilmente il risultato sarebbe stato decisamente diverso. Dalla cronaca di Erodoto invece non si nota nessun tentativo persiano di contrastare l’azione greca, e solitamente – se sul campo di battaglia dai mano libera al nemico – perdi.
I comandanti greci hanno sfruttato al meglio le loro possibilità: non avendo altro che opliti, non potevano elaborare tattiche diverse dall’avanzata e accerchiamento, il loro schieramento dunque doveva mirare proprio allo sfondamento delle ali.
In questo genere di battaglie, lo scopo fondamentale del generale è quasi sempre quello di mandare in rotta un punto dello schieramento nemico. Se il piano riesce una certa porzione dell’esercito nemico scompare nel nulla, per non parlare del possibile effetto domino che potrebbe portare subito ad una vittoria. In casi del genere le perdite maggiori non avvengono nel corpo a corpo, bensì durante la rotta, non deve stupire dunque che nella battaglia ci siano stati 200 morti greci e qualche migliaio di persiani: almeno il 70% dei persiani saranno morti durante la fuga.