Mussolini durante la RSI tentava davvero di salvare gli ebrei italiani?

Discussione in 'Off Topic' iniziata da Pandrea, 30 Novembre 2012.

  1. Pandrea

    Pandrea Guest

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    Gira sempre questa leggenda che Mussolini si impegnò per salvare quanti più ebrei italiani dalla deportazione, durante il periodo della RSI. Ovviamente sia chi appoggia sia chi nega questo fatto non ha alcun interesse ad approfondire la verità storica e tutto rimane nel limbo della storiografia fideista, quella dove la veridicità o no è data per fede, politica o altro che sia.

    Dato che da noi la storiografia fideista non ha adepti, riusciamo a capire se e quanto questa leggenda sia vera?
     
  2. bacca

    bacca

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  3. Mappo

    Mappo

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    Penso che il Mussolini della RSI avesse ormai perso ogni interesse alla realtà che lo circondava. Mesi fa è stato molto interessante ascoltare alla TV ampi brani del carteggio Mussolini/Petacci, ne veniva fuori l'immagine di un uomo completamente distrutto. Ciò detto non ho problemi nel credere che su intercessione di amici, intellettuali, industriali, prelati od altro, abbia fatto quello che poteva per salvare singoli ebrei o singoli nuclei familiari, magari gli avrà pure fatto piacere dimostrare agli altri e a se stesso che aveva ancora un qualche potere, ma che si sia dannato l'anima per salvare gli ebrei in quanto tali proprio mi riesce difficile crederlo. Non penso ad una resipiscenza sul modello dell'Innominato manzoniano. Semplicemente, come detto, Mussolini aveva perso interesse per tutto, figuriamoci per il destino degli ebrei.
     
  4. TFT

    TFT

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    Tempo fa ho partecipato ad un convegno sul fascismo tenuto fra l'altro da alcune personalità molto competenti nel settore e si è accennato anche a questo.
    Storicamente le leggi razziali in Italia sono state applicate più di nomina che di fatto e molto è stato pompato dalla propaganda alleata.
    Basti pensare a Balbo che non ha mai licenziato la sua segretaria ebrea.
    Comunque tornando in topic, non credo sinceramente che si fosse prodigato più di tanto per salvare gli ebrei è più plausibile che li ignorasse semplicemente visto gli altri problemi a cui doveva fare fronte e tutto il resto. Quoto Mappo quando dice che era un uomo completamente distrutto vedendo aver visto crollare il suo sogno e la sua stessa famiglia
     
  5. Filippo I di S.G.

    Filippo I di S.G.

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    Riporto un brano tratto dal saggio di Giorgio Pisanò "Noi fascisti e gli ebrei", pubblicato sulla rivista "Candido" nel 1986. So che è lungo (ok, so che è un papiro di 9 pagine), ma se c'è interesse vi si può trovare molto materiale. :approved:

    [...]

    Passiamo ora a trattare l’ultimo aspetto del dramma ebraico in Italia, vale a dire ciò che accadde nel territorio della Repubblica sociale italiana tra il settembre del 1943 e l’aprile del 1945. Come è noto la tesi antifascista sostiene che la Repubblica sociale italiana, prona agli ordini e alla volontà dei nazisti, collaborò con essi nel prelevamento, nella deportazione e di conseguenza nella successiva eliminazione di migliaia di ebrei. Tale tesi storicamente infondata è confutata dallo storico Renzo De Felice il quale, nella sua opera già citata, precisa con sufficiente chiarezza quale fu l’effettivo atteggiamento assunto da Mussolini e dal fascismo repubblicano nei confronti degli israeliti fin dal sorgere della RSI. Dice il De Felice: «La politica antisemita della RSI fu determinata di fatto dai tedeschi, direttamente o attraverso il loro uomo di fiducia Giovanni Preziosi. Il manifesto programmatico approvato dall’assise costitutiva di Verona del fascismo repubblicano, redatto come è noto da Mussolini, con la collaborazione di Bombacci e di Pavolini, affrontò il problema ebraico quasi di scorcio. «Il punto 7 stabiliva: “Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica”. Affermazione gravissima e aberrante, moralmente e storicamente, ma che, a ben vedere, non portava nulla di nuovo rispetto alla posizione che, come abbiamo dimostrato, Mussolini e Buffarini Guidi (sottosegretario dell’Interno durante gli ultimi anni del regime fascista e quindi ministro dopo la costituzione della RSI: n.d.a.) erano venuti prendendo negli anni precedenti e ai loro progetti di espulsione di tutti gli ebrei “puri” e non assimilati. E sintomatico che l’assemblea fascista, estremamente viva e spietatamente autocritica, non la discutesse quasi per niente, prova questa di quanto la questione ebraica apparisse poco essenziale anche alla maggioranza dei fascisti repubblicani, né in essa vi è nulla che autorizzi a credere che Mussolini avesse sposato la tesi nazista dello sterminio. L’intenzione di Mussolini e dei “moderati” era senza dubbio di concentrare sino alla fine della guerra tutti gli ebrei, come appunto fu ordinato da Buffarini Guidi, il 30 novembre 1943, e di rinviare la soluzione della questione a guerra finita. Giustamente Pini e Susmel nella loro biografia di Mussolini scrivono che i princìpi relativi alla razza approvati a Verona “risentono ancora della congiuntura di guerra” e che “un processo ulteriore di revisione si sarebbe verificato in seguito”».

    Il realtà le uniche disposizioni restrittive che vennero emanate dalla RSI nei confronti degli ebrei, per accontentare le pressanti richieste germaniche, furono di carattere economico (confisca dei beni con l’”ordine di polizia” n. 5 del 30 novembre 1943) seguite dalla ordinanza che stabiliva il concentramento degli ebrei in determinate località. Lo conferma anche il De Felice: «Se si accettua l’aspetto economico, nei primi mesi immediatamente successivi all’emanazione dell’”ordine di polizia” n. 5, la politica antisemita della RSI fu in un certo senso ancora abbastanza moderata. Gli atti di violenza contro singoli o gruppi di ebrei perpetrati dalle forze armate regolari repubblicane furono relativamente pochi.

    «Come vedremo nel prossimo paragrafo, violenze e massacri, individuali e collettivi, furono, nella maggioranza dei casi, opera dei tedeschi e delle varie formazioni autonome e più o meno irregolari fasciste (spesso organizzate addirittura nell’esercito tedesco, come le SS italiane) molto numerose e sulle quali il governo fascista aveva una autorità spesso del tutto nominale. Lo stesso concentramento degli ebrei fu condotto da parte delle Prefetture, relativamente ai tempi ben s’intende, con metodi e con discriminazioni abbastanza umane, né esso fu totale come lascerebbe credere l’ordine del 30 novembre 1943.

    «Dal concentramento (realizzato spesso in edifici scolastici e pubblici o a volte appartenenti alle stesse comunità o istituzioni israelitiche) furono esclusi i vecchi oltre i settanta anni e i malati gravi, gli arianizzati e i “misti” (razzialmente non puri e appartenenti a famiglie miste). Oltre a ciò, il 20 gennaio 1944, Buffarini Guidi, venuto a conoscenza che in molte località i tedeschi pretendevano la consegna degli ebrei via via concentrati, diede istruzioni fossero fatti presso le “autorità centrali germaniche” i passi necessari a ottenere che “in conformità al criterio enunciato, siano date disposizioni adatte perché gli ebrei permangano nei campi italiani”. Disposizioni di non consegnare gli ebrei concentrati ai tedeschi dovettero poi essere date anche alle autorità periferiche: il comandante del campo di Fossoli (Modena), il più importante campo di concentramento organizzato dai fascisti, ebbe infatti più volte occasione di ripetere agli ebrei del campo che se i tedeschi si fossero presentati a Fossoli per chiedere la loro consegna avrebbe smobilitato il campo stesso (il che, ovviamente, non fece quando i tedeschi alla fine si presentarono).

    Nei vari luoghi provinciali di internamento e a Fossoli la vita degli ebrei non fu, in genere, compatibilmente alle condizioni generali di quei mesi, troppo dura. Il vitto era un po’ peggiore di quello normale, ma quasi tutti avevano dei pacchi da amici e parenti e quindi mangiavano a sufficienza; più di uno dei detenuti a Fossoli ha ancora oggi un ricordo non del tutto negativo di quel campo (vi erano persino alcuni che si preparavano per sostenere gli esami di Stato e speravano di potere ottenere al momento opportuno un permesso per andarli a dare)».

    Veniamo ora alla vera storia delle deportazioni in massa degli ebrei italiani tra il settembre e l’ottobre del 1943. Su questi spietati episodi che coinvolsero complessivamente 7.495 israeliti, di cui solo 610 riuscirono a tornare in Italia a guerra finita, esiste tutta una letteratura che tende, come al solito, ad accomunare su uno stesso livello di responsabilità, tedeschi e fascisti. La verità è ben diversa. Cominceremo col dire che sulla base di tutta l’esperienza vissuta a partire dal 1938 e convinti che la presenza del Vaticano e il ritorno di Mussolini li avrebbero salvaguardati dalla “caccia all’ebreo” scatenata dai tedeschi in tutta Europa, gli israeliti italiani si illusero di poter restare tranquillamente nelle loro case in attesa che anche quest’ultima bufera si concludesse con l’arrivo delle truppe anglo-americane. Racconta sempre il De Felice:

    «Molti ebrei credettero anche dopo l’armistizio che in Italia non si sarebbe mai arrivati contro di essi agli eccessi perpetrati in altri Paesi. “Queste cose in Italia non avvengono”, fu la frase che spesso risuonò in quei giorni. Il modo con cui si era sino allora svolta tra noi la persecuzione, la presenza in Italia del Vaticano, le leggi emesse o riconfermate dalla RSI con tutte le loro eccezioni e la loro apparente umanità, illusero in un primo momento centinaia e centinaia di ebrei. Sino a quando non ebbero la dolorosa prova di ciò che i tedeschi intendevano fare, centinaia e centinaia di ebrei rimasero fiduciosi nelle loro case, sordi anche ai primi segni premonitori della tragedia…

    «Alcuni casi limite, se si vuole, ma non per questo meno significativi, basteranno a dare un’idea della fiducia che tanti in un primo tempo nutrirono. A Ferrara i fascisti concentrarono in un’ala delle carceri gli ebrei “puri” che rientravano nelle categorie di cui la RSI aveva, appunto, ordinato l’internamento. Quando, in uno dei bombardamenti subiti dalla città, l’edificio riportò vari danni gli ebrei ne uscirono, ma finito il bombardamento si ripresentarono ai fascisti, tanto che fu stabilito una specie di modus vivendi: quando gli alleati bombardavano, gli ebrei si rifugiavano dove volevano, poi si ripresentavano. Coloro che approfittarono di questa occasione per fuggire furono pochissimi, i più rispettarono scrupolosamente il “patto” e finirono in un secondo tempo a Fossoli. Il campo di Fossoli, del resto, non godè, sino a che fu in mano ai fascisti una cattiva fama: a Ferrara, quando si seppe che gli ebrei vi sarebbero stati trasferiti, si dettero casi di “misti” che esclusi dall’internamento dalle leggi della RSI, fecero di tutto per essere portati a Fossoli, dove vi era… aria buona e non si correvano rischi di bombardamento».

    Ma dove la fiducia degli ebrei toccò i vertici dell’illusione fu proprio a Roma che divenne così teatro della più spaventosa razzia di israeliti compiuta dai tedeschi in Italia dopo l’armistizio. Dall’8 al 25 settembre 1943 gli ebrei romani non subirono molestie di sorta, ma il 26 settembre, improvvisamente, il Presidente dell’Unione, Almanzi, e il presidente della comunità, Foa, furono convocati presso l’Ambasciata tedesca dal comandante della polizia, il maggiore delle SS Kappler. Questi, rivolgendosi ai rappresentanti ebraici, disse: «Voi e i vostri correligionari avete la cittadinanza italiana, ma di ciò a me poco importa. Noi tedeschi vi consideriamo unicamente ebrei e come tali, nostri nemici. Anzi, per essere più chiari, noi vi consideriamo come un gruppo distaccato, ma non isolato, dei peggiori nemici contro i quali stiamo combattendo. E come tali dobbiamo trattarvi. Però non sono le vostre vite né i vostri figli che vi prenderemo, se adempirete alle nostre richieste. È il vostro oro che vogliamo per dare nuove armi al nostro Paese. Entro 36 ore dovrete versarmene 50 chilogrammi. Se lo verserete non vi sarà fatto del male. In caso diverso 200 di voi saranno presi e deportati in Germania alla frontiera russa o saranno altrimenti resi innocui».

    Le proteste dell’Almanzi e del Foa non servirono a nulla. Kappler fece una sola concessione: disse cioè che oltre all’oro era pronto ad accettare sterline e dollari, ma non lire italiane. Premuti dalla minaccia incombente i capi della comunità ebraica cercarono aiuto, in un primo tempo presso la direzione generale di PS e in Questura. Ma le autorità italiane, ancora sconvolte dagli eventi dell’8 settembre e ancora nell’impossibilità di rivolgersi al governo dalla RSI, costituito da pochissimi giorni, dichiararono subito la loro impotenza a soccorrere gli ebrei. L’unico appoggio che le autorità italiane poterono dare, e diedero infatti subito, fu quello di autorizzare gli israeliti ad acquistare dovunque potevano l’oro necessario per pagare la taglia, e ciò in deroga alle leggi vigenti che vietavano il commercio dei metalli preziosi.

    Racconta il De Felice: «Uno dei promotori della raccolta, Renzo Levi, fece un sondaggio presso il vice abate del convento del Sacro Cuore, padre Borsarelli, per sapere se, qualora non fosse stato possibile raccogliere in tempo tutto il quantitativo richiesto, la Santa Sede sarebbe stata disposta a prestare la differenza. A questo sondaggio la Santa Sede rispose facendo sapere di essere disposta a dare l’oro che fosse eventualmente mancato e che la Comunità non si preoccupasse per la restituzione, che sarebbe potuta avvenire senza fretta quando fosse stata in grado di farlo. In realtà, però, dell’aiuto della Santa Sede non ci fu bisogno. All’appello della Comunità centinaia di ebrei e anche alcuni non ebrei, e tra essi alcuni sacerdoti, risposero con slancio. Allo scadere del tempo concesso dai nazisti erano stati raccolti quasi 80 chili d’oro (la differenza, messa in salvo, fu nel dopoguerra versata per l’edificazione dello Stato d’Israele), in buona parte costituiti da anelli, collanine e altri oggettini d’oro che costituivano tutto ciò che le povere famiglie del “ghetto” romano possedevano (non mancarono però anche offerte più cospicue).

    «L’oro così raccolto fu il 28 settembre portato a via Tasso. Su richiesta dell’Unione la polizia italiana concesse una scorta per il trasporto e alla consegna partecipò anche il commissario Cappa della “Demografia e razza” che, però, intervenne in borghese e mescolato agli uomini di fatica che portavano le cassette con l’oro. Al momento della pesatura dell’oro, fatta cinque chili alla volta, i tedeschi, e per essi un certo capitano Schutz, cercarono di ingannare sul peso e asserirono che l’oro ammontava a 45 chilogrammi e 300 grammi e non a 50 chilogrammi e 300: solo grazie alle vive proteste dell’Almanzi e del Foa alla fine riconobbero che il quantitativo era giusto; si rifiutarono però di rilasciare qualsiasi ricevuta dell’avvenuta consegna».

    Ma questa fu solo la prima parte del dramma. La mattina del 29 settembre, infatti, i tedeschi penetrano nella sede della comunità e un gruppo di ufficiali esperti in lingua ebraica sequestrarono tutti i documenti relativi alla comunità stessa, compresi gli elenchi degli ebrei residenti nella Capitale. Questa perquisizione venne ripetuta nei giorni successivi finché il 13 ottobre si impadronirono di tutti i libri della Comunità e del collegio rabbinico.

    «Conclusa la spogliazione delle cose», racconta ancora il De Felice «ì tedeschi passarono quindi all’ultima fase del loro piano, affidata questa volta non già a Kappler e all’esercito, che anzi si opposero, pare, ad essa, ma a tre speciali compagnie di polizia fatte affluire a Roma per l’occasione e alle dirette dipendenze del capitano T. Dannecker, uno dei più feroci collaboratori di Eichmann.

    «Il 16 ottobre, all’alba, la polizia tedesca circondò il “ghetto” e prelevò sistematicamente tutti gli ebrei che vi vivevano… Armi alla mano e sulla base di precisi elenchi nominativi, i tedeschi perquisirono tutte le case del “ghetto”, mentre altri facevano irruzione anche in molte abitazioni fuori di esso, sparse nella città».

    Ecco in quali termini, nel corso di una testimonianza resa al “Centro scientifico ebraico” di Haifa (Israele), venne descritta a guerra finita la tragica razzia da uno dei pochissimi superstiti. Si tratta della testimonianza di Armirio Wachberger che, nonostante il cognome, era cittadino italiano e che al momento dell’arresto risiedeva a Roma con la famiglia:

    «Malgrado le leggi fasciste antigiudaiche, gli ebrei in Italia vivevano abbastanza tranquilli. Questo probabilmente grazie alla bontà del popolo italiano che, lo debbo dire, ignorava l’antisemitismo. Attraverso Radio Londra, noi avevamo appreso l’esistenza dei campi di concentramento e le misure contro gli ebrei, ma a dir la verità non ci credevamo troppo. Consideravamo tutti questi racconti come il frutto della propaganda alleata contro i tedeschi.

    «L’8 settembre, Roma viene occupata dai nazisti. Gli ebrei temono di mostrarsi troppo in giro e si nascondono. Ma i primi giorni trascorrono nella calma. Nessuna misura speciale. La gente esce rassicurata per le vie. Una vita più o meno normale ricomincia a svolgersi al quartiere ebraico, dove l’ebreo corre come gli altri alla ricerca del suo pane quotidiano.

    «La prima misura imposta dai nazisti, come si sa, fu un contributo di 50 chilogrammi d’oro richiesti alla comunità ebraica. Si dava ciò che si aveva. Il Papa stesso contribuì a questa colletta. Versato il contributo, gli ebrei si tranquillizzarono: “Hanno avuto il nostro oro, che possono ancora volere?”, si diceva.

    «Abitavo con mia moglie e mio figlio di appena cinque anni di fronte alla grande sinagoga. Era un venerdì, il 15 ottobre 1943. Vidi i tedeschi penetrare nell’edificio del Kihila e sottrarre gli archivi della comunità. Questo fatto mi inquietò molto e dissi a mia moglie: “Qualcosa si prepara, bisogna fuggire, bisogna nascondersi”. Mia moglie obbiettava: “Nostro figlio è malaticcio e nascondersi in una cantina umida col bambino non è affatto una impresa piacevole».

    «Siamo dunque rimasti a casa. Pochi ebrei si erano nascosti; a quell’epoca Roma contava circa dodici o tredicimila ebrei.

    «Sabato, 16 ottobre, verso le 5 del mattino, due SS si presentarono alla mia porta. Avevano in mano una carta nominativa sulla quale era scritto in italiano e in tedesco pressappoco così: “Voi e la vostra famiglia sarete trasportati in un campo di lavoro in Germania. Potete portare con voi il vostro denaro e i vostri gioielli, due coperte e viveri per otto giorni”.

    «Ciò che mi colpì alla loro entrata in casa mia, fu che uno delle SS tagliò il filo telefonico. Cominciammo a preparare le nostra robe credendo evidentemente che saremmo partiti verso un campo di lavoro. Io presi persino un apparecchio fotografico che m’era caro e che prima avevo nascosto, e naturalmente tutto il mio denaro e i gioielli.

    «Eravamo i primi nell’autocarro che andò di porta in porta, attraverso il quartiere ebraico. Una volta riempito, l’autocarro si diresse verso la scuola militare che si trova sul lungo Tevere. Eravamo circa 1.300.

    «Fra noi si trovava l’Ammiraglio a riposo Capon di Venezia, che mostrò una lettera di Mussolini, credendo che un tal documento gli guadagnasse qualche favore. C’erano, inoltre, molti medici, professionisti e tra gli altri il professor Pontecorvo.

    «La vita nella caserma era atroce. Ci rimanemmo due giorni, sabato 16 e domenica 17 ottobre, in condizioni pessime. Si dormiva tutti per terra. C’erano tra noi dei bambini e anche dei malati.

    «Lunedì mattina, 18 ottobre, ci fecero salire in gran fretta su un camion e ci trasportarono fino ad una stazione nelle vicinanze di Roma, dove ci imbarcarono su un treno composto di carri bestiame, 80,100 persone per vagone; io ero nell’ultimo gruppo e fortunatamente nel nostro vagone rimanemmo solo in trenta. L’Ammiraglio Capon era fra noi. Egli ci diceva: “Noi andiamo alla morte”. Nessuno voleva crederlo. L’Ammiraglio diceva anche: “Voi non conoscete i tedeschi, io li ho già visti durante la prima guerra mondiale”.

    «L’Ammiraglio mi dettò il suo testamento; sua figlia era sposata con lo scienziato Enrico Fermi, che lavorava alle ricerche atomiche negli Stati Uniti.

    «Il nostro infernale viaggio durò sei giorni. Il 23 ottobre 1943 arrivammo ad Auschwitz».

    Ma è indubbiamente indispensabile ai fini di una esatta ricostruzione di quanto accadde a Roma il giorno della razzia, riportare il testo del rapporto ufficiale che venne inviato, a operazione conclusa, da Kappler al generale Wolff, comandante delle SS in Italia:

    «Oggi è stata iniziata e conclusa l’azione antigiu-daica seguendo un piano preparato in ufficio che consentisse di sfruttare le maggiori eventualità. Sono state messe in azione tutte le forze a disposizione della polizia di sicurezza e di ordine. In vista dell’assoluta sfiducia nella polizia italiana, per una simile azione, non è stato possibile chiamarla a partecipare. Perciò sono stati possibili singoli arresti con 26 azioni di quartiere in immediata successione. Non è stato possibile isolare completamente delle strade, sia per tener conto del carattere di “città aperta” sia, e soprattutto anche, per l’insufficiente quantità di poliziotti tedeschi in numero di 365. Malgrado ciò, nel corso dell’azione che durò dalle 5,30 fino alle 14, vennero arrestati in abitazioni giudee 1.259 individui, e accompagnati nel centro di raccolta della scuola militare. Dopo la liberazione dei meticci e degli stranieri (compreso un cittadino vaticano), delle famiglie di matrimoni misti compreso il coniuge ebreo, del personale di casa ariano e dei subaffittuari, rimasero presi 1.007 giudei. Il trasporto fu fissato per lunedì 18 ottobre ore 9.

    «Accompagnamento di 30 uomini della polizia di ordine. Comportamento della popolazione italiana chiaramente di resistenza passiva, che in un gran numero di casi singoli si è mutata in prestazioni di aiuto attivo.

    «Per esempio, in un caso, i poliziotti vennero fermati alla porta di un’abitazione da un fascista in camicia nera, con un documento ufficiale, il quale senza dubbio si era sostituito nell’abitazione giudea usandola come propria un’ora prima dell’arrivo della forza tedesca.

    «Si poterono osservare chiaramente anche dei tentativi di nascondere i giudei in abitazioni vicine, all’irrompere della forza germanica ed è comprensibile che, in parecchi casi, questi tentativi abbiano avuto successo. Durante l’azione non è apparso segno di partecipazione della parte antisemita della popolazione: ma solo una massa amorfa che, in qualche caso singolo, ha anche cercato di separare la forza dai giudei.

    «In nessun caso si è fatto uso delle armi».

    Abbiamo voluto documentare con la maggiore ampiezza possibile la vera storia della razzia degli ebrei romani perché da tutte le testimonianze sopra riportate risulta, senza possibilità di equivoco e di smentita, quanto segue:

    1) le autorità della RSI e i fascisti repubblicani non ebbero alcuna parte né alcuna responsabilità nell’operazione condotta dai tedeschi;

    2) le autorità italiane fecero quanto in loro potere per agevolare la raccolta dell’oro onde permettere agli ebrei di pagare la taglia imposta da Kappler;

    3) gli elenchi nominativi in base ai quali le SS effettuarono la razzia non furono forniti dalle autorità di PS italiane ma rinvenuti dagli ufficiali tedeschi negli archivi della comunità ebraica;

    4) in alcuni casi (come testimonia lo stesso Kappler parlando del fascista in camicia nera che si oppose alla perquisizione che le SS volevano operare in una abitazione ebraica) i fascisti repubblicani cercarono di impedire con ogni mezzo la deportazione degli israeliti.

    Tutta la storia della Repubblica sociale italiana è del resto costellata di episodi che dimostrano e confermano la volontà sempre manifestata da Mussolini e dalle autorità fasciste di mantenere l’azione antisemita nei termini teorici e astratti di leggi mai applicate e di intervenire sempre direttamente, nei limiti delle possibilità, per impedire gli eccessi cui si abbandonavano i tedeschi. E interessante a questo proposito, e a riprova dell’atteggiamento tenuto ovunque dalle autorità repubblicane, riportare quanto scrisse il dottor Bruno Coceani, ex Capo della provincia di Trieste nel suo libro Mussolini e Tito alle porte d’Italia (Editore Cappelli, Bologna, 1948).

    «Con un’ordinanza del 1° dicembre 1943, il ministero degli Interni aveva disposto che venissero sottoposti a sequestro i beni mobili ed immobili appartenenti agli ebrei anche se discriminati, di qualunque nazionalità, in attesa di nuovi provvedi-menti legislativi in materia razziale per la confisca dei beni nell’interesse della Repubblica sociale.

    «Il 4 gennaio, un decreto legislativo di Mussolini, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 10 gennaio, dispose la confisca di detti beni che, in attesa del loro realizzo a favore dello Stato italiano, dovevano venire amministrati dall’”Ente di gestione e liquidazione immobiliare”. La confisca dei singoli beni era demandata ai Capi delle provincie.

    «Nella zona di operazioni del “Litorale adriatico”, queste disposizioni non erano in vigore. L’autorità germanica aveva avocato a sé, sin dai primi giorni dell’occupazione, tutte le questioni riguardanti gli ebrei.

    «Ai primi di febbraio, il Supremo commissariato germanico aveva rivolto l’invito alle principali aziende di credito della città di aprire un conto con la intestazione Vermogensverwaltung des obersten kommissars e successivamente aveva impartito istruzioni di accreditare su tale conto le somme esistenti in deposito e in conti correnti a nome di cittadini di razza ebraica. La Banca d’Italia, nella sua qualità di rappresentante dell’ispettorato per la difesa del risparmio e per l’esercizio del credito, presi accordi con la Prefettura, comunicò al Supremo commissariato che le aziende di credito, cui era stato rivolto l’invito, in base alle vigenti disposizioni del governo italiano avevano già denunciato al Capo della provincia le attività dei cittadini italiani e stranieri di razza ebraica per l’imposto incameramento in favore dell’erario italiano e che pertanto non potevano attenersi alle istruzioni impartite dal Supremo commissariato sino a quando non fosse stata emanata una ordinanza che privasse di efficacia, nella zona di operazione, il decreto del Duce e disponesse che tutte le attività dei nominativi di razza ebraica dovevano essere devolute diversamente.

    «A tale comunicazione il Supremo commissariato rispose che le disposizioni relative ai beni ebraici presso le banche e agli altri valori patrimoniali, venivano esclusivamente impartite dal Supremo commissario, rispettivamente dal comandante su-periore delle SS e della polizia.

    «In seguito a tale preciso ordine, la Banca d’Italia provvide a emanare alle aziende di credito cittadine le necessarie disposizioni. La Prefettura non potè non rilevare nuovamente al Supremo commissariato l’evidente contrasto fra le disposizioni emanate dalle autorità italiane e quelle impartite dalle autorità germaniche e il procedimento arbitrario seguito in molti casi. Sollecitato il consulente germanico, il 1° marzo rispondeva che il Supremo commissariato avrebbe emanato quanto prima un’ordinanza circa il trattamento dei beni di proprietà di ebrei e che pertanto dovevano restare in sospeso i provvedimenti disposti dal decreto legislativo del Duce.

    «Trascorsi due mesi, in data 13 giugno, non essendo uscita la preannunciata ordinanza, la Prefettura, chiamata a risolvere sempre nuovi casi, insistette per una risoluzione della questione.

    «Il Consiglio dei ministri aveva anche dato facoltà ai Capi delle provincie di autorizzare il pagamento totale o parziale agli appartenenti alla razza ebraica di alcuni cespiti quali pensioni mensili, vitalizi, indennità di licenziamento, allo scopo di concedere i mezzi strettamente indispensabili per i bisogni alimentari. Urgeva una sollecita definizione anche per ragioni di umanità.

    «Fu sollecitata invano una risposta.

    «Il ministro degli Interni aveva disposto che gli ebrei italiani e stranieri venissero assegnati a campi di concentramento, esclusi gli ammalati gravi ed i vecchi. Con ulteriori disposizioni furono esplicitamente esclusi gli ebrei di famiglia mista compresi gli ebrei stranieri coniugati con nazionali ariani, o di qualsiasi nazionalità fossero originari coloro che avevano ottenuto formale dichiarazione di non appartenere alla razza ebraica. La polizia tedesca, non rispettando né la legge italiana né la legge di Norimberga, a suo arbitrio eseguì arresti e deportazioni in massa. Alla fine di marzo catturò un centinaio di ebrei negli ospedali. La notizia di questa razzia suscitò un senso di riprovazione. Se ne fece interprete il vescovo di Trieste, monsignor Antonio Santin, con questa lettera inviata al Prefetto: “Ieri sera la polizia germanica ha prelevato dall’Ospedale ‘Regina Elena’, da quello psichiatrico e dalla sezione dei cronici, tutti gli ammalati e vecchi ebrei. Le scene che si sono svolte non sembrano neppure possibili. In quei luoghi di pietà e di dolore è entrata una ventata disumana e violenta, che ha lasciato in tutti i sofferenti l’impressione più penosa e rivoltante. La città tutta ne è nauseata. Sono state prese anche persone che non sono affatto ebree o che la legge non considera tali. Tutti si chiedono dove finiranno questi dolenti. Parenti e amici dei colpiti sono venuti anche da me perché mi interessassi della loro sorte. Se sapessi che un mio intervento potesse avere anche la più piccola possibilità di ottenere qualche risultato non mi darei pace. Ma so a che cosa approdano le mie raccomandazioni. Io vi prego perciò, Eccellenza, di far sentire d’urgenza alle autorità del Commissariato e a quelle della polizia, il senso di rivolta della cittadinanza tutta senza distinzione. Anche i barbari si fermano davanti al malato dolente. Con questi sistemi si scavano nuovi abissi, non si creano le condizioni necessarie alla comprensione fra i popoli.

    «”Io prego voi, Eccellenza, che tutelate gli interessi della popolazione, di rendervi interprete della stessa e di voler intervenire energicamente a favore di questi infelici.

    «”Non ho nessuna difficoltà che questa mia lettera sia conosciuta dalle autorità germaniche, se essa può comunque giovare”.

    «Il prefetto espresse al consulente germanico il biasimo unanime per queste operazioni di polizia e il senso di disagio della popolazione; gli disse e gli scrisse che anche il vescovo, angosciato, lo aveva pregato di manifestare il suo sdegno. Non consegnò la lettera per non creare al fiero presule maggiori fastidi.

    «Di fronte alle misure di polizia, le autorità civili tedesche avevano già dato dimostrazione della loro impotenza. Ma nella questione riguardante gli e-brei avevano ancora minore forza.

    «Le più strane vociferazioni correvano in città sulla sorte degli ebrei. Che venissero condotti alla pilatura del riso, in un casermone isolato nei pressi di San Sabba, corrispondeva al vero. Che venissero trasportati in carri ferroviari piombati in lontani campi di concentramento, era accertato. Che qualcuno, vecchio e malandato, inetto a sopportare tanti disagi, fosse deceduto durante il viaggio, era pure provato. Uno di questi, l’insigne pittore triestino Gino Parin. Che dalla pilatura molti non uscissero più o colà di notte fossero fucilati e cadaveri cremati, era credenza diffusa. C’era chi diceva di avere udito delle grida strazianti nella notte e di avere visto le fumate del forno crematorio. Vero è che difficilmente degli arrestati la polizia dava notizia e ogni tanto si apprendeva che qualcuno era scomparso dalla circolazione.

    «I più abbienti erano partiti da Trieste sino dall’inizio della guerra per le lontane Americhe. Moltissimi per altre città italiane, dove vivevano sotto falso nome. A Roma la colonia ebraica triestina era numerosa. Altri si tenevano nascosti in città e usci-vano di casa con molta circospezione. Ricomparvero, baldanzosi, nel periodo badogliano per eclissarsi di nuovo all’arrivo delle truppe tedesche.

    «Più che in qualsiasi altra città italiana forte era il numero degli ebrei domiciliati a Trieste e numerosi i matrimoni tra ebrei e ariani, la massima parte appartenenti al ceto medio e alla categoria dei professionisti. Nella stragrande maggioranza non avevano dimostrato sentimenti avversi all’Italia. Sotto la dominazione austriaca molti furono ferventi irredentisti e si acquistarono benemerenze nel movimento nazionale, da Giuseppe Revere a Giacomo Venezian, combattente nell’assedio di Roma del ’48, da Moisè Luzzatto a Masimo Levi che innalzò a potenza mondiale le “Assicurazioni generali”. Non si può cancellare dalla storia irredentistica di Trieste il quarto di secolo in cui Felice Venezian, dal 1883 al 1908, anno della sua morte, diresse, con diritta coscienza di italiano, la politica adriatica. Non pochi parteciparono alla guerra di Redenzione. Ebbe la medaglia d’oro Giacomo Venezian, professore di diritto all’Università di Bologna, morto come volontario per il riscatto della sua Trieste.

    «La comunione dei sentimenti politici facilitò i connubi tra ebrei e cattolici nelle famiglie più devote alla Patria. Perciò a Trieste, più che altrove, l’estensione delle leggi razziali fu causa di sconvolgimenti e di tragedie e s’allargò la ostilità contro Hitler e di riflesso contro Mussolini.

    «Nel mese di agosto 1944 vi fu una recrudescenza di misure persecutorie contro gli ebrei. Il 25 la polizia tedesca arrestò la madre di Carlo e Giani Stuparich, quasi ottantenne, di origine ebraica, madre di due medaglie d’oro della guerra di Redenzione. Venne, per primo, a darmi la notizia Guido Slataper. Presi subito accordi con il vescovo e il podestà di Trieste per un passo collegiale presso il Supremo commissariato affinché la protesta assumesse maggiore solennità.

    «Il 28 agosto fummo ricevuti dal dottor Wolsegger al quale consegnai la seguente nota: “Era mio desiderio già da tempo di presentarvi alcune mie considerazioni sulla situazione della provincia, ma un arresto, che ha provocato una grande commozione in città, mi ha spinto ad affrettare questo colloquio. La presenza del vescovo e del podestà di Trieste vi dicano quale angoscia turba gli animi di tutti gli italiani. Venerdì mattina la polizia tedesca ha arrestato la signora Gisella Stuparich, vecchia quasi ottantenne, madre di due medaglie d’oro, Carlo e Giani Stuparich. Il primo cadde eroicamente sul Monte Cengio, il secondo ritornò a Trieste, dove da 25 anni vive lontano dalla politica, solo dedito alle sue opere, che gli hanno dato rinomanza nazionale e al di fuori d’Italia, e al culto della madre sconsolata. La madre è di origine ebraica ma sposò un ariano ed educò, con grande sacrificio, cristianamente i figli insegnando loro che la vita ha valore se è conquista quotidiana di bene. Educato a questa morale, il figlio ha seguito la madre in prigione per assisterla nell’ora tremenda. All’età che ha, ammalata com’è, non può nuocere a nessuno. Il suo arresto nuoce all’armonia dei rapporti tra le forze tedesche e la popolazione italiana, e crea una vittima che può pesare. Trieste lo considera un’offesa ai suoi sentimenti italiani. Il provvedimento non trova giustificazione che nella formalità della legge. Ma la legge più dura ha le sue eccezioni. Non è molto che il Supremo commissario ha fatto appello alla solidarietà dei combattenti della passata guerra. Con questo arresto distrugge la sua parola e crea un abisso incolmabile. La Germania onora gli eroi. Onori questa nobilissima madre, liberandola dall’onta del carcere. Sarà un gesto di umanità e di saggia politica.

    «Non vi nascondo che questo nuovo fatto rende ancor più difficile la mia posizione di prefetto. Considererei grave colpa per me se non intercedessi e ottenessi che sia liberata la madre di due medaglie d’oro che non solo Trieste ma tutta Italia onora. È un peso che non posso sopportare. Invoco il vostro patrocinio e quello del Supremo commissario anche a nome del vescovo e del podestà di Trieste, affinché la legge non sia ciecamente applicata alla lettera ma con spirito di alta giustizia”.

    «Il dottor Wolsegger, visibilmente colpito, non potè non disapprovare il passo inconsiderato della polizia. Assicurò formalmente che si sarebbe interessato per la scarcerazione, dando prova di probità e di coraggio, che non era allora cosa priva di rischi intromettersi nelle faccende razziali… Il giorno dopo nel pomeriggio il dottor Wolsegger mi telefonò per darmi la buona notizia che “tutto era a posto”.

    «Il 31 agosto a mezzogiorno Giani Stuparich assieme alla madre e alla moglie fu liberato».

    Questa la testimonianza del dottor Coceani. Ma in ogni città vi furono esponenti e funzionari della RSI che si giocarono la vita per salvare gli ebrei. Valga per tutte la storia del dottor Giovanni Palatucci, funzionario della Questura di Fiume durante la Repubblica sociale italiana.

    Alla vigilia della seconda guerra mondiale a Fiume vivevano circa 1.500 ebrei i quali, nonostante le “leggi razziali” del 1938, avevano continuato nella più assoluta tranquillità a svolgere le loro normali occupazioni senza subire restrizioni di sorta. Ma la situazione degli ebrei fiumani cambiò bruscamente dopo l’8 settembre, allorché, con la creazione del “Litorale adriatico” e con l’arrivo delle truppe germaniche di occupazione, si determinarono i presupposti per una violenta repressione. Ormai si profilava, in tutta la sua agghiacciante realtà, la deportazione in massa della comunità ebraica nei lager della Polonia.

    Per mandare a vuoto un simile provvedimento le autorità repubblicane di Fiume, spronate continua-mente dalle massime autorità della RSI, si organizzarono subito in difesa della comunità ebraica.

    Protagonista principale di questa difficilissima e delicata operazione di salvataggio divenne il commissario-capo di PS, dottor Giovanni Palatucci, che per le sue funzioni ufficiali e la sua esatta conoscenza del problema ebraico giuliano (era stato per diversi anni responsabile dell’Ufficio stranieri della Questura) era la persona più indicata per opporsi efficacemente ai propositi delle SS.

    Per prima cosa Palatucci procedette alla sistematica e radicale distruzione di tutto il materiale documentario riguardante gli ebrei e giacente presso i vari uffici della Questura. Ogni traccia riferentesi agli ebrei fiumani venne così fatta sparire, con il risultato di bloccare qualsiasi tentativo, da parte delle SS, di elaborare delle “liste di proscrizione”. Subito dopo, la Questura ingiunse all’ufficio anagrafico del Comune di non rilasciare alcun documento riguardante i cittadini di razza ebraica senza aver prima informato della cosa le autorità repubblicane. Con questa disposizione la Questura si mise nelle condizioni di conoscere con un certo anticipo le mosse delle SS e di paralizzarne, con opportune contromisure, i provvedimenti repressivi (ad esempio, avvertendo gli interessati del pericolo che li sovrastava).

    Ottenuto così, con questi provvedimenti interni, un certo margine di manovra, il dottor Palatucci organizzò l’esodo dalla città di tutti gli ebrei conosciuti come tali. Tra il gennaio e il luglio 1944 almeno mille ebrei, uomini, donne e bambini, muniti di documenti di identità falsi, furono evacuati da Fiume e smistati nelle località dell’interno dove il controllo dell’apparato germanico di sicurezza era particolarmente debole. Allorché, alla fine di agosto del 1944, la centrale berlinese incaricata della “soluzione finale” diede disposizioni al comando tedesco di Fiume di procedere al rastrellamento degli ebrei per deportarli nei lager, le SS non poterono procedere per mancanza di “materia prima”. Gli ebrei fiumani erano tutti “scomparsi”.

    Il capitano delle SS Hoepner, che aveva ricevuto l’incarico di organizzare il “trasporto”, si vide giocato dai “camerati” fascisti e decise di vendicarsi. Individuato nel dottor Palatucci l’anima dell’operazione, procedette al suo arresto, accusandolo di essersi piegato alla congiura ebraica per “brama di oro”.

    Il dottor Palatucci venne immediatamente de-portato nel campo di concentramento di Dachau il 13 settembre 1944. Il 13 aprile 1945, mentre il lager stava per essere raggiunto dalle truppe alleate, l’eroico funzionario di polizia venne abbattuto a colpi di mitra. Alla sua memoria lo Stato di Israele ha dedicato una via di Tel Aviv.

    Questi fatti provano in maniera evidente l’op-posizione delle autorità italiane all’operato inumano dei nazisti. E sufficiente, in questa sede, precisare che non appena la RSI fu in grado di controllare la situazione, i tedeschi vennero costretti a cessare le razzie e i massacri, come quello dei sedici ebrei compiuto sul Lago Maggiore, a Meina, nell’ottobre del 1943. Come è bene precisare che, a guerra finita, nessun fascista repubblicano venne condannato per aver partecipato a razzie o a uccisioni di ebrei. Una ampia documentazione in questo senso fu pubblicata dallo scrittore socialista Carlo Silvestri nel suo libro Mussolini, Graziarti e l’antifascismo (Longanesi, 1947). Il Silvestri raccontò, tra l’altro, che Mussolini si preoccupò fino all’ultimo della sorte degli ebrei.

    Ancora il 19 aprile 1945, nove giorni prima di essere appeso per i piedi a Piazza Loreto, Mussolini, saputo che le SS avevano arrestato l’israelita dottor Tommaso Solci, di Mantova, e suo figlio Giorgio perché appartenenti al Partito d’azione (arrestati, sia detto per inciso, per delazione di un loro compagno di lotta), riuscì a farli liberare. Uguale intervento salvò la vita al dottor Mario Paggi, pure lui israelita, liberale, denunciato alle SS da alcuni suoi compagni di partito. Ma non basta: durante tutto il periodo della RSI, un intero gruppo ebraico, quello dell’avvocato Del Vecchio, di Milano, visse nascosto nel palazzo della Prefettura milanese, sotto la protezione di Piero Parini e con il pieno consenso di Mussolini. Va detto che, a guerra finita, l’avvocato Del Vecchio volle sdebitarsi difendendo Piero Parini con una commovente arringa davanti alla Corte d’Assise Straordinaria.

    E evidente, quindi, sulla base della documentazione da noi prodotta in queste pagine, che è storicamente falso attribuire a Mussolini e al fascismo repubblicano delle responsabilità e delle complicità in merito alla persecuzione condotta dai tedeschi nei confronti degli ebrei.
     

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