Ok...la mia è una prova e non è detto che incontri l'entusiasmo di qualcuno . Il mio esperimento è di fare un AAR romanzandolo , come se fosse il racconto, non di un nobile, non di un notabile o un altolocato in genere, di uno di quei poveri soldati virtuali, che noi giocatori di strategigi in genere, mandiamo allegramente al massacro. Come scriveva qualcuno, sentendosi in colpa per i massacri che "ordinava", ho pensato fosse giusto dar voceanche a questi coraggiosi. Ahh..l'AAR è fatto con MTW2, in quanto ho una campagna in atto, che ora è decisamente avanti rispetto al racconto, ma per rispettare la logica generazionale, mi sono dovuto dilungare un pò. Ps: è un pò lunghetto da leggere...magari, per chi lo volesse fare, conviene salvarlo su un file word. A chi lo fa...buona lettura: Anno domini 1115 febbraio nei dintorni di Pavia La legna brucia piano nel piccolo focolare. L’aria è pesante e viziata da miasmi che vanno da una deprimente minestra di radici ad odore di stracci umidi e mal lavati. Fuori la nebbia ha definitivamente avvolto la campagna e il timido sole invernale. Seduto intorno ad una lurida tavola, un gruppo quattro vecchi soldati, beve cupamente da una brocca di vino rancido ed annacquato. La taverna si chiama “il gallo d’oro” ma potrebbe tranquillamente chiamarsi “disperazione” tanto è lo squallore che la contraddistingue. Improvvisamente la porta si apre ed insieme alla nebbia entra un giovane contadino, che timidamente si avvicina ai soldati. “Salve! Il mio nome è Berengario e vorrei…” “ Zitto moccioso non vedi che siamo occupati!” lo interrompe un anziano balestriere, dall’uniforme sgualcita ed il giustacuore lacerato. Il giovane si allontana di un passo, stupito dal silenzio che continua a perdurare nella taverna. Improvvisamente uno dei quattro anziani soldati, probabilmente un picchiere, sbotta in una grossa risata: “ Vi ricordate a Berna? Cavoli… che macello!! Astulfo…ti ricordi quel capitano ribelle come piangeva mentre lo trapassavi con la spada?!! Eehhhh bei tempi quelli…soldi, donne, una battaglia ogni tanto e poi feste e banchetti. Allora sì che Noi si era considerati “. “ Già!” risponde quello con la divisa da miliziano cittadino “….allora ci portavano tutti rispetto! Non come ora…quando chiedevi del vino, ti portavano il migliore … non come in questa lurida bettola….Oste della malora…vuoi farci cagare vermi verdi con la tua sbobba indecente” grida voltandosi verso un omino con un grembiule che, nelle migliori intenzioni, doveva essere bianco. “ La conquista di Bologna ha rammollito il Gran Duca….” Sibila un arciere senza un occhio e con il viso solcato da due cicatrici. Improvvisamente i quattro si voltano verso il giovane, che nonostante l’aspetto burbero della conversazione e rimasto imbambolato ad ascoltare. “Non c’è posto per un contadinello nell’esercito…non lo sai che le guerre sono finite!!Sì lo sappiamo che vuoi arruolarti, vuoi uscire dalla sporca vita che fai, vuoi viaggiare e, magari, un giorno diventare un soldato famoso ed intrepido….ma gli arruolamenti sono bloccati…non c’è più bisogno di noi….non c’è più bisogno di noi..” Il vecchio picchiere abbassa la testa, forse per nascondere le lacrime di rabbia che già si intravedono dalle folte sopracciglia. “forse potresti tentare la fortuna come giullare di corte” ammicca l’arciere. Berengario si volta per andarsene, con la sensazione bruciante di dover gettare al vento tutti i suoi sogni, quando una mano callosa gli afferra un polso. “Tranquillo sbarbatello….forse potresti tentare la fortuna con un bel viaggetto a Damasco. Lì han sempre bisogno di carne fresca” A parlare è stato il miliziano con uno sguardo tra il serio ed il divertito. “maaaah, laggiù non è più guerra! È solo un continuo assassinio tra predoni” si intromette l’arciere “Siediti ragazzo….vediamo se hai la voglia e la pazienza, e ricorda che la pazienza è la prima regola che impara un soldato, di ascoltare quattro vecchi rottami che ne hanno passate di cotte e di crude, prima di finire in questo schifoso buco a bere vino rancido”. Il giovane si siede, Il miliziano comincia a raccontare con una voce sorprendentemente calma e lo sguardo fisso verso giorni più caldi, indietro….molti anni più addietro. Anche gli altri tre, si perdono nel passato, ognuno a modo suo e ognuno con il suo ricordo di gloria, sangue e vittoria. Anno Domini 1085 Aprile Sud della Corsica Ildebrando è seccato. Non gli hanno concesso di stare in prima fila nello schieramento di battaglia. Il suo comandante gli ha spiegato che è ancora troppo giovane per sostenere l’urto di una carica di cavalleria o di una di fanteria. Per il momento deve solo guardare, imparare e possibilmente sopravvivere. E’ pomeriggio inoltrato, oltre l’immenso prato che gli si stende davanti, proprio sulle mura di cinta della cittadella, c’è il nemico! Ribelli! Un esercito di ribelli. Più in alto, sulla sommità della collinetta ecco il castello da espugnare: Aiaccio. Il Generale della forza di invasione (uno degli innumerevoli cugini del Gran Duca) cavalca sicuro di fronte all’esercito milanese schierato a battaglia. Urla qualcosa ma è troppo lontano per sentirlo. Le compagnie di fianco alla sua sono formate anch’esse da miliziani cittadini. Il numero è dalla loro parte ma è l’esperienza che manca. Il giovane miliziano non sa che il Gran Duca di Milano, signore di Genova ha deciso, in comune accordo con il consiglio dei maggiorenti, la conquista di questo avamposto sul Tirreno per poter poi disporre di un eventuale trampolino verso la Sardegna . Non sa che questo piccolo castello deve diventare il serbatoio di soldati sufficientemente addestrati, necessari alla conquista di Firenze. Non sa che il cugino del Gran Duca, Massimino Dardo, ha sconsigliato questa mossa, accusando l’impreparazione dell’esercito meneghino. Troppi giovani, pochi soldati esperti e pochissime truppe che hanno già affrontato una battaglia. Le due unità di mercenari, entrambe di fanteria, si sono già disposte dietro l’ariete. Ecco il suono del corno. Si comincia! Tutta la fatica per arrivare a questo punto, viene dimenticata. Nonostante la temperatura gradevole, la lancia e lo scudo sono scivolosi nelle sue mani abbondantemente sudate.. L’ariete parte con slancio e subito è investito da una pioggia di frecce infuocate. Diversi uomini della compagnia che lo sospinge vengono trasformati in torce ma continua ad avanzare. “Sono alla porta!!” Si sente gridare da qualcuno alla sua destra. Uno, due, tre colpi e poi ancora e ancora, fino allo schianto della porta in legno. I miliziani addetti all’ariete si addossano alla palizzata mentre i due reparti di mercenari si infilano nel varco correndo a testa bassa. Dalla sua posizione, Ildebrando non capisce molto di quello che sta succedendo. Si sentono solo alte urla e una miriade di figure che corrono,lottano, cadono per non rialzarsi. Improvvisamente il corno suona di nuovo. E’ il segnale. I mercenari non sono riusciti a passare o sono in serie difficoltà. Tocca alla sua compagnia. Di corsa, a perdifiato, con le frecce che trafiggono i compagni al suo fianco, calpestando i primi cadaveri ridotti a cenci bruciacchiati. Finalmente la porta scardinata appare di fronte a lui, con un balzo supera un groviglio di corpi immobili a terra. Inciampa e cade con il viso in un ventre squarciato. Vomita e con la faccia imbrattata di sangue si rialza, carica la fila dei nemici che gli stanno di fronte. Non si accorge di ciò che gli capita intorno. Il nemico ha bloccato lo slancio degli attaccanti e sta cercando di contenere al massimo le unità che si sono infilate nella cittadella, mentre gli arcieri ne fanno strage. Il Generale meneghino si è accorto di ciò ma non ha né il tempo né i mezzi per forzare le mura in qualche altra parte. Quindi pompa il maggior numero di soldati nella breccia, ordinando agli arcieri ai suoi ordini di annientare quelli avversari. Il risultato è che, a causa dell’inesperienza molte frecce cadono tra le due masse di fanteria, che si stanno battendo nella via principale. E’ un massacro. Ildebrando urla come un forsennato, mentre si batte contro un gigantesco soldato ribelle. Colpisce in affondo lo scudo dell’avversario, mentre questi, con esperienza lo respinge per poi gettarlo a terra con uno spintone. Il giovane è sopraffatto dal terrore. Torreggiando su di lui, il nemico sta per infilzarlo con la sua spada, quando una freccia lo trafigge al collo. Il corpo senza vita del ribelle gli rovina addosso. Si rialza ansimante, lo scudo ormai inservibile gli penzola dalla mano, mentre la lancia è malferma nella sua mano tremante. Gira intorno lo sguardo come una lepre braccata, conscio del fatto che, nella mischia, la morte può raggiungerti da ogni parte, ma solo allora si accorge che la battaglia si è allontanata, verso il centro del paese. Con gambe incerte si avvia verso il rumore del combattimento ma quando vi giunge è già tutto finito. I soldati superstiti milanesi levano alti Hurrà inneggiando con le spade e le lance all’indirizzo del Generale e dei suoi cavalieri pesanti. Questi, infatti, approfittando dell’allontanarsi del combattimento dalla breccia, si era portato su una stradina parallela a quella centrale e convergendo rapidamente sulla piazza, aveva investito sul fianco gli arcieri ribelli. Debellati questi ultimi aveva attaccato alle spalle le unità nemiche che ancora resistevano, inducendole alla fuga. Soluzione, peraltro inutile, visto che nessuno era scampato alla morte, dopo l’inseguimento da parte degli inferociti uomini delle milizie. Ildebrando è in stato confusionale. Ogni parte del suo corpo sembra sia passata sotto una macina. I suoi compagni lo accolgono tra loro, ridendo e scherzando sul suo orribile aspetto. Ma sono risate a denti stretti, dettate più dallo sciogliersi della tensione che da un reale sollievo di essere sopravvissuti. Qualcuno addirittura piange, in disparte, vergognandosene. I più anziani, allora li abbracciano, li rincuorano, li riempiono di vino svuotando le bisacce nelle loro gole riarse. Della sua compagnia non sono rimasti in molti. Una quarantina in tutto. Molti, troppi, giacciono a terra, chi morto chi morente, con braccia amputate, teste fracassate, orrende ferite che ne deturpano il volto. L’agonia di questi feriti durerà anche giorni, prima che la sorte non ne decida la guarigione, oppure la morte. Il ferrigno odore di sangue pervade l’aria, frammisto al puzzo di fumo e di carne bruciata. Il Generale vittorioso è soddisfatto. Le spaventose perdite che ha sofferto il suo esercito non lo turbano. In breve, pensa, saranno ripianate da nuovi arruolamenti. L’importante è la conquista di Aiaccio. La gloria è sua, il castello pure. Dolore e morte li lascia volentieri ai suoi soldati. Un aiutante di campo riferisce il resoconto della battaglia. Ribelli: 480 uomini Milanesi: 1150 uomini Perdite ribelli: 480 uomini Perdite milanesi: 530 uomini. Non è stata una battaglia epica, ma per quelle ci sarà tempo. Ora è impaziente di spedire un messo a Milano per annunciare la sua vittoria. Nel frattempo si insedia nel castello e concede ai suoi soldati due giorni di riposo e festeggiamenti a spese, naturalmente, della popolazione. Questa accetta volentieri, conscia del fatto che le cose sarebbero potute andare decisamente peggio. Ildebrando non si lascia coinvolgere nella razzia di denaro o nella ricerca di donne. Come la maggior parte dei pivelli che hanno combattuto oggi per la prima volta, si accuccia in un angolo a ripensare ogni istante della battaglia. Poco alla volta il terrore e l’apatia si dileguano, lasciando il posto ad un calmo orgoglio. In fondo non è nemmeno stato ferito di striscio. A notte inoltrata si sente pronto a festeggiare con i compagni davanti al falò e dopo diversi bicchieri di vino è impaziente di partecipare ad una nuova battaglia. Anno Domini 1094 Novembre nord di Berna “Colpito in pieno!!” Astolfo Barberino, balestriere ducale, è molto soddisfatto del suo tiro. A cento passi di distanza la quadrella si è conficcata profondamente nel mezzo del giovane abete, utilizzato come bersaglio. Non è così semplice fare altrettanto. Lo sanno bene anche i suoi compagni, ma d’altronde conoscono bene anche Astolfo. Entrato giovanissimo nell’esercito, a soli 14 anni era già un provetto arciere. Partecipando a diverse battaglie minori, si era messo in luce, quando a 18 aveva salvato la vita al suo capitano, con un tiro eccezionalmente lungo e preciso, colpendo in pieno petto un cavaliere ribelle. Dopodiché, era entrato a far parte dell’elite di quel tempo, in fatto di armi da tiro. Era stato promosso balestriere. Subito impiegato in decine di scaramucce di confine aveva affinato la sua bravura nell’uso di quella nuova arma, guadagnandosi i gradi di sergente. Ora, alla soglia dei 30 anni, insieme alla sua compagnia, si trova nei pressi di Berna, castello da alcuni anni conquistato dai milanesi. L’esercito meneghino è accampato da alcuni giorni in un’ampia vallata, circondata da alte montagne. E’ freddo e la neve caduta di recente, non migliora le cose. Astolfo estrae la quadrella dal tronco e si volta in direzione della tenda del comando. Il comandante non è un nobile imparentato con il Gran Duca. E’ un capitano noto per il suo coraggio e la sua perizia tattico-strategica. Il suo nome è Gianni. Non è la prima volta che si trova sotto il suo comando e ne è piuttosto contento. Lo vede salire in sella al suo destriero, seguito dalla scorta di cavalieri pesantemente vestiti ed armati. Urla cominciano a sentirsi da ogni parte dell’accampamento. Anche il capitano della sua compagnia arriva urlando. E’ il momento di muoversi. Oggi ci sarà battaglia. Oggi si chiuderanno i conti con l’ultimo esercito ribelle che resiste all’interno del territorio ducale. Dopo la conquista di Firenze da parte di un esercito di medie dimensioni, che l’aveva presa per fame, il Gran Duca si era deciso, forte del consenso del consiglio dei maggiorenti, ad aumentare le dimensioni del proprio territorio. Ingenti somme erano state investite nella costruzione di caserme ed armerie, cantieri navali e centri di arruolamento. Ma non erano state tralasciate anche cose più favorevoli alla popolazione. La produzione di cibo era aumentata, così come la messa in opera di strade funzionali. Il commercio era stato incentivato e anche l’edilizia, sia civile che religiosa, incoraggiata. La politica diplomatica aveva raggiunto un grado di affidabilità eccelsa. Non vi era, infatti, nessun monarca straniero, per quanto “difficile”, che non fosse stato blandito, aiutato e foraggiato da una miriade di emissari. Il risultato era una serie di ottime alleanze con i maggiori stati confinanti e non. Agli occhi del papa non vi era nazione con eguale fervore religioso che non il Gran Ducato. Tuttavia per compiere tali cose, necessitava un numero sempre crescente di soldi. Per recuperarli, il signore di Milano e di Genova era costretto, diverse volte, a depredare città ribelli (Firenze Cagliari, Tunisi e Berna). Eliminando i ribelli dal suo territorio, si sarebbe ravvivato anche il commercio verso l’oltralpe, terra dalle molte possibilità. Ecco il perché di quella spedizione in terra elvetica. In quella zona, infatti, staziona da diversi anni un imponente esercito ribelle, guidato da un capitano ex meneghino di dubbia levatura morale, ma di indiscutibile perizia militare. Il suo nome è Carcano. Ai suoi ordini ci sono più di duemila uomini. Tutte queste cose, Astolfo le conosce molto bene, in parte per averle vissute sulla sua pelle, in parte per sentito dire. La vita del soldato ducale è piuttosto piacevole, quando non si è in battaglia. Marciando per le strade del Gran Ducato si gode appieno il senso di benessere e di abbondanza che ne contraddistinguono le città, i paesi e le più piccole borgate. Ma ora non è tempo di indugi. Il grosso esercito milanese si prepara a marciare contro i ribelli. Più di 2300 uomini, divisi in 20 compagnie. Il nord del paese è praticamente privo di difesa. Ben quattro di queste sono di balestrieri, due di arcieri, altrettante di addetti alle grosse baliste, quattro di fanti e ben otto di cavalleria, sia pesante che leggera. Il balestriere si incammina a fianco del comandante della sua compagnia verso la strada infangata, seguito dal resto dei suoi uomini. Qualcuno inizia a cantare, qualcun altro grida di far silenzio, un altro impreca per il freddo, la fatica la paura. Un grosso serpente di uomini si snoda nella vallata. Dopo un’oretta di marcia spedita appare un grosso pianoro, sulla cui sommità cominciano a disporsi le varie compagnie in base agli ordini. Dalla sua posizione, Astolfo, che con i suoi compagni balestrieri si trova in posizione leggermente arretrata ed elevata rispetto agli altri reparti, può godere in pieno della vista dell’intero schieramento di battaglia. In prima linea due compagnie di arcieri, affiancate da altrettante unità di balestrieri. Arretrate di una decina di passi si trovano le compagnie di fanti. Ai fianchi due squadroni di cavalleria leggera e due di pesante. Ancora dietro, le due unità di balestrieri ed i reparti delle baliste. In riserva i restanti quattro squadroni di cavalleria leggera e pesante tra cui quello del capitano Gianni. La vista è impressionante. La moltitudine si staglia maggiormente sulla bianca coltre di neve che riverbera in uno splendido gelido mattino. Ma ecco che dal fondo del pianoro arriva l’esercito nemico. Di dimensioni pari, se non maggiori, a quello ducale. Anche aguzzando la vista non si riescono a distinguere bene i reparti né come si stiano consolidando le posizioni. L’unica cosa certa è che non ci sarà una carica di cavalleria, in quanto l’avversario ne è debolmente provvisto. Al massimo si tratta di due squadroni di cavalleggeri e uno di cavalleria pesante. In compenso un numero impressionante di fanti è posto in prima linea con la copertura di altrettanti arcieri arretrati di una ventina di passi. I ribelli completano lo schieramento senza neppure fermarsi, segno di buon addestramento, e si avvicinano alla prima linea meneghina con passo lento ma sicuro. Ordini sono urlati tra le file. Rumore di corde che si tendono e di leve che girano fino al secco scatto del meccanismo di bloccaggio delle balestre. Astolfo è pronto con la sua arma. Ma ecco che improvvisamente una staffetta in arrivo da Berna raggiunge il capitano milanese. Pochi minuti dopo, un’inquietante voce si spande tra le truppe. Un’altra armata ribelle, che si era nascosta agli esploratori in una stretta valle vicina, si sta dirigendo verso il loro fianco destro. Istintivamente le unità che si trovano in quella posizione, ruotano lentamente il loro fronte in quella direzione. Il comandante si consulta con i suoi subalterni. Anche se lontano, il balestriere capisce, dai cenni del capo del Capitano Gianni, che la soluzione alla battaglia è solo una veloce sconfitta dell’esercito ribelle che sta loro di fronte. I portaordini corrono veloci tra le file e immediatamente la sua compagnia, con una compagnia di fanti viene spostata sull’estrema destra dello schieramento ducale. Gli ordini sono di resistere, in caso di assalto nemico, fino a, quando il resto dell’esercito non potrà intervenire in aiuto. In pratica, pensa amaramente Astolfo, lui e i suoi compagni sono condannati. Ecco la seconda armata che appare, superando un declivio. Sono meno di quanto si temesse, circa 750 uomini, per lo più fanti e cavalleggeri, ma muovono verso di loro a velocità sorprendente. Nel frattempo il capitano milanese ha lanciato la cavalleria pesante, alle spalle dei ribelli, per effettuare una manovra a tenaglia, mentre tutti gli arcieri ed i balestrieri tirano nel mucchio della fanteria. Questa cozza fragorosamente sulla prima linea meneghina. Il familiare rumore di acciaio contro acciaio, grida e ansimi di agonia, arriva fino alle posizioni tenute dai due manipoli sul fianco destro. Con un occhio alla battaglia che infuria ed uno verso il nemico in arrivo, Astolfo alza la balestra, prende la mira e fa partire la quadrella che si perde nella moltitudine dei ribelli. Febbrilmente ricarica ma ormai la cavalleria nemica ha raggiunto la compagnia di fanti che protegge il suo reparto. Da quel momento in avanti è tutto un susseguirsi di lanci e ricariche, fino a quando la sottile linea protettiva dei difensori cede e il nemico, a cui si sono ormai aggiunte almeno 2 compagnie di fanti, dilaga tra i balestrieri. E’ il momento di estrarre la spada dal fodero e di battersi come un qualsiasi fantaccino. Proprio davanti a lui, uno di questi, sta per essere sopraffatto da un feroce ribelle. Astolfo si interpone tra la vittima ed il suo carnefice e con un fendente taglia di netto il braccio di quest’ultimo. Tutto intorno è una confusione totale, ma, sebbene decimate (sono ridotte ormai ad una sessantina di uomini ciascuna), le due unità a protezione del fianco destro tengono senza retrocedere di un metro. Il balestriere ed il suo nuovo compagno che nel frattempo si è rialzato si battono schiena contro schiena, affrontando uomini a cavallo e non, mulinando le spada e la lancia. Mucchi di cadaveri si formano lì dove la lotta si fa più agguerrita. Non c’è possibilità di sapere come si sta sviluppando la battaglia principale. Non si fa illusioni, il nostro, continuerà a battersi fino all’ultima goccia di energia. Si ritrova improvvisamente davanti ad un capitano ribelle a cavallo che lo carica con foga. Con mestiere ed esperienza, evita la carica, gettandosi di lato per poi colpire di taglio la gamba destra del cavaliere. Questi rovina a terra, mentre il cavallo fugge. Astolfo si porta su di lui, brandendo la spada, pronto al colpo di grazia, imitato dal fante che per tutto il tempo gli è stato a fianco. Il capitano ribelle, vistosi perduto implora pietà mettendosi addirittura a piangere per il terrore. Ciò non fa che rendere furioso il soldato meneghino che lo trafigge con un grido di rabbia cieca. Quasi come un segno del destino, irrompe nella mischia la cavalleria pesante del comandante lealista che spazza via i resti delle compagnie ribelli. Altri due squadroni di cavalleggeri si danno all’inseguimento dei superstiti, sterminandoli. La battaglia è finita. Il balestriere conficca la spada nel terreno e si guarda intorno per capire cosa sia realmente successo. Ovunque cada il suo sguardo vi sono cadaveri, il pianoro si è trasformato in un macabro tappeto di morte. La densità maggiore di vittime si ha nelle zone dove si è combattuto più aspramente. Ciò gli rivela la dinamica della scontro, forte della sua decennale esperienza sui campi di battaglia. La manovra a tenaglia degli squadroni di cavalleria, ha funzionato perfettamente, polverizzando la controparte nemica. Proseguendo l’assalto alle spalle degli avversari, ne hanno travolto le linee, impegnate nel contempo in aspro combattimento con i fanti milanesi. La dissoluzione dell’esercito ribelle è stata completata dalla carica simultanea di ben 4 squadroni di cavalleria. Subito dopo questi stessi hanno deviato sulla loro destra per irrompere verso il fianco tenuto dalle due compagnie, ormai sull’orlo del collasso. Nessun dubbio che la vittoria sia dovuta in gran parte, a quel pugno di balestrieri e di fanti, che hanno resistito al limite delle loro forze, per contrastare la seconda armata ribelle, sebbene in inferiorità di quasi 3/1. La cosa è confermata dal fatto che il capitano Gianni in persona, sceso da cavallo, si sofferma a stringere la mano ad ognuno dei superstiti. Il computo finale dello scontro (ma questo Astolfo lo può solo immaginare) è il seguente: Esercito ducale: 2350 uomini Esercito ribelle: 2236 uomini + 754 uomini Perdite esercito ducale: 505 uomini Perdite esercito ribelle: 2140 + 710 uomini. La considerazione nei confronti del proprio capitano, cresce in maniera esponenziale in Astolfo, dopo un gesto simile. Nessuno, a suo pensare e non solo, è un capo naturale deciso ed umano allo stesso tempo. Egli si gira a ricercare il fante con il quale ha condiviso la lotta e lo trova seduto poco distante. Gli si avvicina e lo aiuta a rialzarsi. I due si stringono la mano ed in questo momento inizia e si cementa un’amicizia che durerà negli anni a venire. Il nome del fante è Berto Remondini. Insieme si allontanano verso un carro provviste dove sono certi di poter trovare qualcosa da bere per scacciare la fatica del combattimento. La battaglia si è conclusa e porta con se diverse conseguenze positive. I ribelli sono definitivamente cancellati dal territorio ducale. Nuovi commerci e nuove prosperità attendono i suoi abitanti. I soldi che saranno risparmiati per il mantenimento della sicurezza interna potranno essere investiti in nuove iniziative ed in eventuali nuove spedizioni militari (maggiormente renumerative). Si ipotizza, infatti, l’indizione di una crociata in Terra Santa da parte del nuovo Papa. Il capitano Gianni viene finalmente riconosciuto come membro della famiglia ducale, sposando una nipote del capofazione. Per Astolfo la ricompensa si riduce a qualche decina di scudi d’argento trovati nelle tasche del capitano ribelle ucciso. Ma non se ne cura più di tanto. Verrà il giorno in cui il bottino sarà decisamente più alto, il giorno nel quale strapperanno a Venezia (l’odiata Venezia) qualche città importante. Passeranno più di 10 anni prima che questo desiderio si avveri. Anno Domini 1101 giugno 2 miglia ad Ovest di Gerusalemme. Il lamento del Muezzin si insinua insistentemente nella testa dei crocesignati in attesa sotto il sole cocente. Rivoli di sudore scendono copiosi dagli elmetti in ferro e si infilano nelle uniformi impolverate dalla marcia notturna. E’ appena l’alba, ma la temperatura è già intollerabile. I volti, della soldataglia giunta da S. Giovanni d’Acri, sono segnati dalla fatica e dalla tensione. I preti al seguito della spedizione intonano salmi ad alta voce in un’assurda gara per vincere la preghiera islamica. Tutt’intorno il territorio desolato, è spazzato da un vento caldo che spacca le labbra. Sul limitare della strada restano innumerevoli masserizie, testimoni della precipitosa fuga verso la città della popolazione circostante, all’arrivo dell’armata crociata. Gualtiero Famaccini sembra quasi voler divorare con gli occhi la città che gli si para davanti. Gerusalemme! Simbolo della Cristianità. Il sogno di tutta una vita, si è avverato. Finalmente lui, umile arciere, è a poche miglia dal Santo Sepolcro. I suoi commilitoni, lo chiamano scherzosamente “Gualtiero il prete”. Non se ne è mai curato. Egli crede e sarà salvato. Dio gli ha indicato la strada. Conquistare Gerusalemme, Liberare il Santo Sepolcro dagli odiati mori. Questo è quanto. Nato trentacinque anni prima, in un piccolo borgo nel marchesato di Ivrea, questo piccolo soldato, ha iniziato la sua carriera come novizio nel vicino monastero di Arnad. Ma la sua non è una fede contemplativa, bensì una missione. Portare il vero Credo ai selvaggi miscredenti. Quando un frate predicatore giunge al monastero, portando l’annunciazione della crociata, abbandona immediatamente il noviziato e si arruola nelle milizie del Gran Ducato di Milano come arciere. L’inizio non è privo di difficoltà. La sua inesperienza è di grave impaccio ai suoi progetti, ma la sua fede incrollabile e la convinzione di essere nel giusto gli fanno superare tutti gli ostacoli, fino a portarlo a Genova il giorno dell’imbarco per la Terra Santa. Non ha mai combattuto. Si è sempre rifiutato di impugnare le armi contro un qualsiasi cristiano. E’ sempre riuscito ad evitare lo scontro, non per vigliaccheria, per principio. I suoi compagni lo sanno ed incredibilmente lo hanno sempre protetto. Anche il suo comandante ne rispetta il motivo. Ben quattro anni di viaggio non hanno scalfito minimamente la sua determinazione. Via mare fino a Tunisi per imbarcare altre truppe, poi a piedi fino ad Alessandria per evitare pericolosi pirati. Ancora per mare fino a S. Giovanni D’Acri dove una misteriosa epidemia ha costretto l’esercito ad una pausa forzata di un anno. Poi, finalmente l’ultima tappa per arrivare alla Città Santa. Dodici giorni di faticosa marcia nella desolazione quasi assoluta. Le brevi soste, nelle ore più calde, al riparo di qualche sparuto palmeto, facendo provvista d’acqua. Del nemico nessuna traccia. Solo il caldo e la polvere, onnipresenti e spietati. Ora è giunto all’appuntamento decisivo che segnerà, nel bene o nel male, la sua esistenza. E’ qui per avere “la risposta”. Non sa cosa lo attende. Sa unicamente che il suo destino è questo e per il resto …Dio provvederà. L’esercito crociato non è sostenuto dalla stessa baldanzosa eccitazione. La maggior parte si appoggia malferma alle proprie armi, ammirando si, la Città, ma nello stesso tempo preoccupandosi per il prossimo combattimento. Guida la Santa Spedizione Il fratello minore del Gran Duca, il Conte Puccio, famoso guerriero dal coraggio a tutta prova ma dal senso tattico-strategico non brillantissimo. Egli guida un esercito eterogeneo composto di una ventina di unità, in massima parte fanterie con due compagnie di arcieri e quattro squadroni di cavalleria pesante. Dietro a tutti, avanzano faticosamente le due catapulte e l’ariete, costruiti sulla costa, dove il legname abbonda. In tutto, circa 1900 uomini, seguiti da un codazzo di preti salmodianti e di pellegrini esaltati. La “Vera Croce” precede la moltitudine, scintillando come un piccolo sole. Gualtiero si trova sulla estrema sinistra della lunga linea dello schieramento, disposto (erroneamente) parallelamente alle imponenti mura della città. Il suo compito sarà quello di tempestare di frecce i nemici sulle mura, proteggendo gli uomini che tenteranno di utilizzare le scale per conquistarle. Il conte Puccio sta cominciando solo ora ad organizzare i suoi reparti, quando improvvisamente le massicce porte di Gerusalemme si aprono, vomitando addosso ai crociati, colti alla sprovvista, centinaia di soldati urlanti. Molti reparti crociati sono presi dal panico e neppure tentano una qualche resistenza. Prima una poi due compagnie di fanti della milizia si danno alla fuga, inseguite e decimate da altrettanti squadroni di arcieri a cavallo musulmani. L’unità di Gualtiero, composta da arcieri, tenta di fermare la marea nemica, cominciando freneticamente a tirare frecce ad altezza uomo contro una compagnia di fanti. Molti ne cadono, ma altrettanti sfuggono alla pioggia di morte e si lanciano su di essa. E’ il corpo a corpo. Gualtiero non ha mai ucciso prima d’ora, ma il fanatismo religioso, duplica le sue forze. Gettato l’arco, impugna una lunga spada, appartenuta ad un moro caduto e, con larghi fendenti, comincia ad avanzare nella calca. I suoi compagni cadono intorno a lui come grano falciato. Tre arabi gli sono addosso. Un colpo di piatto lo colpisce sull’elmetto di ferro, stordendolo temporaneamente, ma salvandogli la vita, in quanto i nemici, credendolo morto, passano oltre. Si rialza, furente e si getta nuovamente nella mischia. Una sciabolata, giunta da chissà quale direzione, gli apre una profonda ferita in volto. Non vede più nulla dall’occhio destro, e quando ritrae la manica che aveva usata per tergersi il viso, la scopre copiosamente bagnata di sangue. Un altro fendente lo raggiunge alla spalla, un altro alla coscia, ma lui, continua a battersi con la forza della disperazione. Si trascina sulla carcassa di un cavallo e sedutosi continua a battersi roteando la spada. Finalmente un contingente di fanteria pesante crociata interviene in quella zona della battaglia, liberandola dai nemici che volgono in fuga. Cosa può mai essere successo? Semplicemente, il Conte, vista la mala parata, ha deciso di giocarsi il tutto per tutto. Il suo fianco sinistro era stato travolto dagli arcieri a cavallo arabi, ma il resto dello schieramento sembrava tenere. Il nemico poi, non aveva approfittato del proprio sfondamento, in quanto i due squadroni di cavalleria leggera, non si erano spinti alle spalle dell’esercito crociato. La fanteria avversaria era decisamente lenta per effettuare una manovra di aggiramento sul fianco e si accontentava di massacrare i reparti superstiti che ancora resistevano in quel punto. Chiamato il suo attendente, il Conte Puccio aveva ordinato l’attacco simultaneo di tutto lo schieramento. Le catapulte avevano cominciato a tempestare di proiettili i reparti appiedati che uscivano dalla città e la compagnia di arcieri superstite, era stata arretrata per coprire l’assalto generale. Con lentezza ma inesorabilmente, il fianco destro crocesignato, avanza fendendo la marea nemica, che, dapprima si arresta poi si scompone in mille rivoli di fuggiaschi. Dopodiché lo stesso fianco destro si volge verso il centro, prendendo alle spalle numerose compagnie di fanteria moresche. Anche queste, prese dal panico, cedono e cercano riparo oltre le mura perimetrali di Gerusalemme. Tutti gli squadroni di cavalleria investono, poi, gli arcieri a cavallo musulmani, che sono massacrati, impossibilitati alla fuga dall’accerchiamento cristiano. Rimane solo il fianco sinistro, che ancora si batte con vigore. Mentre tutta la cavalleria crociata e una grossa parte dell’esercito, insegue i fuggiaschi all’interno della Città Santa, due unità di fanteria pesante vengono inviate di corsa nella zona critica. Affrontano i resti di ben sei compagnie di fanteria avversaria, ne fanno strage e si posizionano nelle vicinanze delle mura ormai conquistate. Gualtiero nel frattempo si è rialzato. Nell’unico occhio che ancora possiede, brilla una determinazione che sconfina nel fanatismo, nella follia. Appoggiandosi ad una lancia si dirige verso la porta principale, incurante del massacro che continua tutt’intorno. Deve assolutamente essere presente, quando Gerusalemme sarà resa Cristiana. “Deus Volt!” continua a ripetersi in una monotona litania. Raggiunge, finalmente, la strada principale. Ormai si combatte solo sporadicamente. I nemici sono pressoché annientati. Con orrore si accorge che il mare di cadaveri che lastrica le strade, non è formato da guerrieri arabi. Migliaia sono i corpi di donne, vecchi, bambini cui le spade hanno inferto un’orribile morte. Sbigottito e senza parole cerca con lo sguardo un motivo plausibile per un simile massacro. Poco distante, proprio nelle vicinanze del Santo Sepolcro, un gruppo di cavalieri sta trucidando un’intera famiglia di arabi. Urla, inveisce contro di loro, vorrebbe spiegargli che non si può guadagnare la salvezza e la vita eterna, facendo scorrere il sangue di tanti innocenti. Ma è tutto inutile. Il tremendo macello si compie in tutte le vie della città. Lo stesso Conte Puccio, anche se volesse, non potrebbe fermarlo. Sono gli stessi preti al seguito dell’esercito, dapprima fuggiti alla vista dell’attacco nemico ed in seguito entrati baldanzosamente in città, a chiedere a gran voce, il massacro di tutti i musulmani per purificare Gerusalemme dalla presenza islamica. La ferocia dei crociati non si spiega nemmeno con il computo delle perdite sofferte, sebbene elevate. Il contingente Cristiano ha sofferto circa 870 morti. Quello arabo, la totalità dei suoi componenti: 1330 uomini. Non sono stati fatti prigionieri. Il genocidio durerà ancora tre giorni e gli incendi nella città saccheggiata altrettanto, prima che la sete di sangue si plachi ed il Conte decida di mostrarsi misericordioso nei riguardi dei superstiti. Gualtiero non potrà assistere a ciò, e non potrà nemmeno assistere alla solenne messa di ringraziamento. Egli giace in una sorta di ospedale di fortuna, insieme con altre centinaia di feriti. Alla fine, la perdita di sangue dalle innumerevoli ferite, ne ha causato lo svenimento. E’ stato rinvenuto nella notte da una pattuglia, accanto al Santo Sepolcro, svenuto nella posizione della preghiera. Anche una volta guarito, niente sarà più come prima per lui. L’occhio destro irrimediabilmente perduto e la marcata cicatrice sul volto lo identificheranno come uno dei tanti soldati che vagano in cerca di ingaggio. Ma la ferita più profonda e dolorosa è nella sua anima. Egli ha ripudiato la sua fede, si è allontanato da quel Dio che lo vorrebbe partecipe e complice del massacro di innocenti perpetuato nella Città Santa. Da quel giorno non verrà più chiamato “il prete”. Da quel giorno nessuno lo sentirà più pregare. Mille battaglie lo aspettano. Ma nessuna verrà da lui combattuta con il grido “Deus Volt!”. Anno domini 1115 febbraio nei dintorni di Pavia E’ calata ormai la notte. Nella taverna gli ultimi avventori si preparano a tornare a casa. I tavoli sono ripuliti alla meno peggio. Solo cinque uomini sembra non vogliano andarsene. Quattro di loro hanno l’aspetto di vecchi soldati. Uno, è un ragazzino di campagna che li guarda imbambolato, mentre questi narrano di guerre e bottino. Ad un tratto, l’anziano fante, di nome Ildebrando, emette un lungo sbadiglio. “ Bene ragazzo mio…ora sai cosa ti sei perso. L’ora è tarda e per quel che mi riguarda me ne andrò a dormire. Non mi resta che augurarti buona fortuna. Dovessero riaprire gli arruolamenti, ricordati di non essere troppo felice di diventare soldato. Non sempre si ha la possibilità di restare vivi per godere della paga. Addio sbarbatello”. Detto questo, come ad un comando, tutti e quattro i soldati si alzano ed escono nella buia nebbia. Berengario, quella notte sogna di battaglie e di vittorie. Il mattino seguente, chino sul campo, intento a strappare pochi ciuffi di crescione, esce dall’apatia, con la voce di un bardo che annuncia la guerra contro Venezia. Dice che il Gran Duca richiede a tutti gli uomini arruolabili, di presentarsi nei centri di reclutamento, il più presto possibile. Berengario pensa alle parole dette, la sera prima, dal vecchio soldato. Poi riflette sulla sua attuale condizione di contadino, schiavo e condannato ad una vita monotona e senza scopo. Un istante dopo, corso nella sua misera capanna, raccolte le sue misere cose in un piccolo fagotto, si avvia verso Milano.