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Economie e Guerra : WW1 & WW2

Discussione in 'Età Contemporanea' iniziata da rob.bragg, 10 Dicembre 2013.

  1. Silvan

    Silvan

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    Che enorme banalità. Certo che la pace è meglio della guerra. La guerra serve a spostare ricchezza non a crearla.
     
  2. Lirio

    Lirio

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    A me non pare una enorme banalità.
    A di la' del fatto che tale tesi in sostanza conferma la mia molto modesta ipotesi, probabilmente suffragandola con studi approfonditi.
    Dire che in termini economici la guerra e' meno conveniente della pace non significa dire cosa condivisa dai più, ne' dire cosa banale.
    Per due ragioni.
    Prima ragione, perché la frase va inserita nel contesto, ed assume significato leggendo quanto sotto riportato. Io invece trovo che, leggendo anche la frase sottostante, e osservando il diverso comportamento successivo alle due guerre, si comprenda molto bene come sia radicalmente cambiato il modo di pensare dei politici di molti paesi, con le conseguenze efficacemente illustrate da questi due studiosi, che immagino (non ho letto il libro) abbiano compiuto ricerche documentate prima di lasciarci tale considerazione, che va letta, ripeto, abbinandola alla frase sottostante. Due studiosi affermano un concetto in modo semplice e chiaro, mi fanno capire una cosa, e io apprezzo maggiormente le persone che si fanno capire di quelle che non vogliono o non riescono a farlo. Io credo che ci sia una differenza tra dire cose semplici e affermare enormi banalità.
    Seconda ragione, perché, se fosse davvero una enorme banalità, come mai da millenni la maggior parte dei governi non ha capito una lezione così banale?
     
  3. Invernomuto

    Invernomuto -

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    Sì ma ha senso partire dalle persone per analizzare un fatto storico preciso, una battaglia o altro fatto storico temporalmente limitato. In quel caso, il peso degli "uomini" fa seriamente la differenza.
    Più si allunga l'orizzonte di analisi, più il peso del "fattore umano" diventa meno rilevante ed aumenta il peso dei i fattori "quantitativi": dal numero di carri armati che produci al mese a al livello di camion che hai a disposizione per rifornire le tue truppe. Se è vero che i primi inoltre influenzano i secondi (si pensi agli effetti dell'attività di uno Speer per la produzione del Reich), è pur vero il contrario: l'organizzazione delle unità e le tattiche offensive e difensive di un esercito si basano su quello che riesci a produrre e che hai a disposizione. Nel caso dei tedeschi ad esempio, si è già citato l'impossibilità di motorizzare l'intero esercito: la scelta fu di motorizzare completamente solo alcune divisioni, lasciandone altre essenzialmente a livello della WW1 in termini di mobilità. Fu una scelta obbligata, dettata dai "numeri", non una scelta "strategica" o miope.
    Inoltre, all'aumentare della "meccanizzazione" degli eserciti, si accompagna un aggravio sempre maggiore per il sistema logistico e produttivo. Semplificando moltissimo, gli eserciti dell'antichità potevano, essenzialmente, procacciarsi le risorse nelle zone in cui operavano. Nella WW2, devi prevedere un impianto logistico e produttivo per rifornire milioni di uomini e centinaia di migliaia di mezzi di munizioni, parti di ricambio, vestiario, viveri, carburante, ecc. Anche qui i "numeri" sono padroni: puoi avere i carristi migliori, ma se non riesci a rifornire i tuoi carri armati a centinaia di km da fronte te ne fai poco...

    Ciao.
     
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    Ultima modifica: 3 Gennaio 2014
  4. Silvan

    Silvan

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    Accetto la critica: forse sono io che non riesco a farmi capire.

    Allora ripeto: la guerra serve a spostare ricchezza non a crearla.
    Nessun re, condottiero, governo o avventuriero se non è pazzo pensa di creare ricchezza con una guerra, piuttosto pensa a sottrarla ad altri oppure a creare posizioni di privilegio o a difenderle. Ottimi motivi per fare una guerra.

    La frase sottostante mi pare banale quanto la prima.
    Quanta mancata ricchezza si deve alla guerra fredda? Quindi USA e URSS non hanno capito questa enorme banalità per decadi?
    E adesso che la contrapposizione non c'è ... quanta ricchezza in più sta generando la nuova collaborazione mondiale?
     
  5. Silvan

    Silvan

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    La prima parte ti seguo, la seconda no anche perchè non ho mai detto che la fanteria tedesca fosse appiedata per scelta e nemmeno le altre cose di cui parli.

    Certamente più un evento è esteso nel tempo e nel numero di persone coinvolte piu il fattore umano si diluisce nelle considerazioni materiali ed economiche.
    Quando parliamo della WWII rientriamo in questo caso, ma questo comunuque, dal mio punto di vista, non significa poter oscurare il fattore umano considerando solo i numeri economici.

    I Tedeschi hanno vinto le prime battaglie con rapporti numerici sfavorevoli, hanno perso anche le ultime con rapporti numerici sfavorevoli. Quello che è realmente cambiato è stato il modo di combattere. Il vantaggio iniziale è stato recuperato dagli alleati.
    Per me questo è un esempio palese di come siano gli uomini a fare la differenza con le loro abilità, organizzazione, motivazioni, piuttosto che i numeri.
     
  6. Lirio

    Lirio

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    Ciao silvan,
    Grazie per la risposta che mi consente di comprendere meglio la tua teoria, molto interessante.
    Mi piacerebbe molto che ci fosse un primato qualitativo e di valori nei confronti armati tra i popoli, in luogo del mero confronto tra i numeri e le quantità. A dire il vero, credo che la tua teoria sia per certi aspetti confortante, se ben ne comprendo la portata.
    Tuttavia, avrei piacere di avere qualche delucidazione, in merito a due aspetti. Tali due aspetti sono centrali per comprendere quali siano le diverse modalità di lettura della storia, quali siano le due visioni, e perché i dati quantitativi non siano sufficienti a spiegare, ne' in termini di analisi ex post, ne' in termini predittivi, sulla base di modelli statistici, gli esiti dei conflitti armati. Premetto che probabilmente la mia difficoltà a comprendere dipende anche dalla mia ignoranza dei valori di base nelle culture dei popoli che combatterono la seconda guerra mondiale, se non in termini generali e superficiali, quasi aneddotici.
    Trovando invero tale tesi molto suggestiva, perche' ribalterebbe il mero criterio quantitativo, introducendo un altro asse di valutazione, quello se ben comprendo dei valori/qualitativo, aprendoci una prospettiva diversa, chiederei delucidazione sui seguenti due aspetti che non sono sicuro di aver compreso.

    Primo aspetto: contrapposizione tra uomo e materiali
    In un tuo passaggio, tu affermi che ci sia una contrapposizione tra te e rob nel fatto che tu valuti un fatto storico partendo dalle persone, mentre rob da una analisi dei materiali. Al di la della puntualizzazione di inverno muto, che fa osservare che è diverso trattare di una battaglia e (questo era il tema del dibattito) di una intera guerra, avrei bisogno di un chiarimento. Cosa intenda rob mi è chiaro, perché ha fornito delle tabelle. Poi possiamo condividere o meno, ma mi è chiaro l'assunto. Cosa devo intendere invece per valutare un fatto storico partendo dalle persone? Se la tesi e' - come e' quella in questa sede - che la disparità economica era tale da prefigurare una probabile vittoria dello schieramento più forte, come possiamo confutarla analizzando le persone? Vorrei un chiarimento su tale punto, se per persone si debbano intendere i leader politici, gli strateghi militari, il livello di scolarizzazione, la capacità di ricerca e sviluppo, le arti, le capacità produttive, i brevetti, il popolo, o altri fattori ancora. Mi sembra un punto interessante di dibattito. Tale passaggio e' centrale, per comprendere la tua teoria. In effetti, tu dici che gli aiuti materiali forniti dagli usa alla Russia sono altra questione (eppure si tratta indubitabilmente di aspetti quantitativi e non qualitativi), e quindi esulano dal discorso. Invece, sono centrali i fattori umani nel confronto - tu precisi - tra Germania e Russia poiché, anche se i russi avevano risorse di molto superiori, hanno rischiato di perdere il confronto per i fattori umani che i numeri dell'economia non riescono a cogliere. Questa precisazione appare molto interessante. Molto e'stato scritto della centralità dell'uomo in economia, e non starò' a dire che uno dei più bei discorsi mai fatti da un politico e' quello che jfk, peraltro riportato da qualcuno anche qui sul forum, in cui spiega che il gross domestic product non contiene i nostri valori, e non spiega tutto di una nazione. Dunque, poiché di nazioni si tratta, facciamo un passo in piu' nel nostro ragionamento. Chiedo scusa ma sono impreparato instoria militare, ma credo che qui il discorso si ampli. Se ora mi e' chiara la contrapposizione di valori quantitativi (le tabelle di rob) quali sono le contrapposizioni di fattori umani? E possibile, anche sommariamente, delineare una tassonomia evoluta di valori di riferimento dei diversi schieramenti?

    Secondo aspetto: contrapposizione di culture
    In secondo passaggio, tu confermi una contrapposizione tra due scuole di pensiero. Dici in sostanza che la contrapposizione e' tra la cultura umanistica e quella capitalistica, e il diverso modo di valutare la storia tuo e di rob. Mi pare di capire che tu poni da un lato la cultura umanistica e dall'altra il capitalismo, quasi fossero due correnti di pensiero, due diverse visioni del mondo, due ideologie. Mi sembra che tu intenda che il capitalismo sia fatto di numeri, mentre la cultura umanistica di valori umani. Non so, mi sembra che si stiano paragonando due cose afferenti a diverse sfere, in epoche storiche diverse, una derivante dall'altra, e peraltro tra loro non in conflitto. Se mi si dice, per esempio, che la moderna visione della finanza sia in contrapposizione con il capitalismo originario, sono parzialmente d'accordo. Se mi si dice che stiamo vivendo una crisi del capitalismo, dico che è perché non abbiamo vissuto in un sistema capitalistico, ma in un sistema debitalistico, di matrice sostanzialmente statunitense, e sono ancora abbastanza d'accordo. Ma se mi si dice che il capitalismo e' in contrapposizione con la cultura umanistica, o con l'umanesimo, non mi pare un'affermazione storicamente convincente. Vorrei capire in che senso ci sia una contrapposizione tra le due visioni della storia, quasi che una fosse fatta di valori e l'altra di numeri, una fredda e l'altra calda, una quantitativa e l'altra qualitativa, una di lingua latina e l'altra di lingua inglese. Come noto, il termine capitalismo, o la parola capitale, che molte persone immaginano legato alla prosa di Marx, nel diciannovesimo secolo, o che so, di Adam Smith, in quello precedente, non nasce originalmente in lingua tedesca o inglese. Se pensiamo alla moneta, che è quanto di più tangibile ci sia, certamente quanto di più concreto, quantitativo e probabilmente arido, e se immaginiamo una moneta antica, romana ad esempio, ebbene in ogni moneta troviamo sempre due facce. Su una faccia vi era solitamente il regnante, l'imperatore, il governo, il potere politico, insomma. Ma sull'altra faccia cosa troviamo? Quello che si è perso nella visione attuale della finanza, e che ha condotto, in buona parte, alla crisi che stiamo vivendo. Sul l'altra faccia troviamo un bue, un cavallo, un maiale, una pecora. Insomma, un animale, la terra, quello che consente al governo di trarre le tasse e, se è assennato, fare opere di pace e cultura, mentre se è dissennato, finanziare, da che mondo e' mondo, la guerra. Anche, e sopratutto, nella cultura umanistica. Probabilmente ho compreso male il ragionamento alla base della teoria della contrapposizione, perché mi sfugge qualcosa. Purtroppo, sia nella modernità, sia nell'antichità, la visione del mondo e' relativamente uguale, almeno in quello occidentale. L'economia moderna, che deriva dalla filosofia, e dalle scienze umanistiche, rimane tuttavia schiacciata nell'alveo prevalente dei valori quantitativi. A meno che si intenda invece dichiarare una contrapposizione tra la visione occidentale moderna, che pone la centralità della scienza e propone una visione materiale, e la visione orientale, che rimane ancorata ai grandi valori della religione e della filosofia e propone una visione immateriale, come hanno evidenziato grandi autori del secolo scorso, proprio tra due due guerre. Se ora mi si dicesse che la tua visione moderna di lettura della storia e' incentrata sui valori e sull'uomo, e quindi orientale, mentre quella di rob e' incentrata sugli aspetti razionali e quantitativi, e quindi occidentale, allora comprenderei meglio la contrapposizione. Se mi si dice invece che il capitalismo e' in contrapposizione con l'umanesimo non comprendo, poiché su quell'altro lato della medaglia, ora come allora, si trova ciò che finanzia lo stato e la guerra. Si chiama capitale, e simboleggia, nell'antica cultura latina, il capitale terreno, la quantità, la produzione, quello che oggi chiameremmo PIL. Non è una visione moderna di leggere la storia, in lingua inglese. È una storia vecchia come il mondo, quella della terra, dell'animale, ed e' infatti una parola latina. Caput. Il capo di bestiame.
     
    Ultima modifica: 3 Gennaio 2014
  7. Silvan

    Silvan

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    Per ragioni di tempo rispondo solo a questo frammento, poi con piacere anche al resto.

    Primo. La valutazione dei valori umani e personali non è una novità. Ti chiedevo prima se conosci la storia di Davide e Golia e quello che rappresenta nella cultura ebraico-cristiana. Pari discorso riguarda la cultura ellenico-romana e i confronti che questa ha avuto con altre civiltà. E' sempre stato il valore dell'uomo, e della nazione come aggregato di uomini, a dominare le scelte e le politiche.
    Non è assolutamente una novità. Semmai è una visione che sta tramondando.

    Secondo. Non è mai esistito un criterio quantitativo per valutare un conflitto. Già a partire dall'età antica. Il semplice numero di spade non è mai stato decisivo, nemmeno se si trattava solo di menar le mani in una gigantesca mischia.
    Al crescere della dimensione degli eventi (concetto espresso da Invernomuto) il peso del fattore umano decresce, ma non diventa mai trascurabile oscurabile.
    Parlando di guerra le sole tabelle del PIL non danno informazioni su aspetti come l'organizzazione, le motivazioni, le dottrine, la visione strategica, ecc. Tutte cose se stanno nella testa delle persone, nel loro modo di comportarsi e reagire agli eventi.
    Il PIL non tiene nemmeno conto del sapere scientifico, che capirai bene specialmente nei conflitti moderni quale peso possa avere.
    Per questo Rob ha pubblicato la tabella del PIL e io la tabella dei premi Nobel. Ma Rob sostiene che la tabella del PIL sia sufficiente a spiegare l'esito del conflitto. Io credo di no. Ne quella del PIL, ne quella dei Nobel ne solo le due tabelle insieme.
    I fattori economici vanno visti insieme a quelli umani, ed i secondi sono di piu difficile lettura e valutazione.
     
  8. Lirio

    Lirio

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    Non avevo letto tale tua precisazione ad invernomuto, che in parte mi fa comprendere meglio le ragioni della tua analisi.
    Quindi mi pare che si possa così interpretare: a parità di condizioni, e quindi in rapporti numerici sfavorevoli, i tedeschi prima vincono e poi no. Quindi, se ben comprendo, il famoso secondo asse che andavo cercando esiste. Nei valori qualitativi devo intendere abilità dei combattenti, motivazione al combattimento ed attitudine al combattimento (organizzazione).
    Ora comprendo meglio il ragionamento. Se capisco, mi si perdoni la banalizzazione, è un pò come nelle pedine dei wargames, in cui due brigate o due reggimenti non hanno lo stesso valore, ma hanno un valore diverso, magari a parità di valore quantitativo (numero di uomini o mezzi), perchè hanno differenti abilità, organizzazione e motivazione al combattimento.
    Ho capito bene?
    Se è così, allora mi interessa comprendere come mai i tedeschi prima vinsero e dopo persero, secondo tale chiave di lettura, ed in particolare, mi pongo due domande:
    1. la differenza nel modo di combattere, cioè la differenza qualitativa, secondo tale interpretazione, e cioè il differenziale a loro favore nella prima parte del conflitto, è venuta meno, tu affermi, perchè il vantaggio è stato recuperato dagli alleati. Ma ciò è avvenuto per merito dei secondi o demerito dei primi? Sarebbero cioè i tedeschi che hanno perso terreno o gli alleati che lo hanno recuperato?
    2. è possibile ipotizzare che la variabile quantitativa sia rimasta invariata? il ragionamento sarebbe meno convincente se, tra le prime battaglie con rapporti numerici sfavorevoli, e le ultime con rapporti numerici sfavorevoli, il rapporto fosse radicalemente cambiato, se non nel segno, nel valore assoluto
     
  9. Invernomuto

    Invernomuto -

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    Ma non parliamo del solo confronto fra numero di spade/cannoni/armi fra Nazioni. Parliamo della capacità di produrre, equipaggiare, rifornire (ed anche addestrare) un esercito di milioni di uomini e migliaia di veicoli. Questo richiede la produzione (e la gestione logistica) di un numero spropositato di risorse. Il paragone con l'antichità non è fattibile, il mondo è cambiato con la rivoluzione industriale, che piaccia o meno. Gli USA hanno potuto tenere in piedi una guerra su due fronti, una massiva campagna di bombardamento strategico utilizzando bombardieri quadrimotori a lungo raggio e nel mentre sviluppare un programma atomico dai costi paurosi perché avevano un apparato produttivo che gli permetteva di farlo. Avevano pure le scuole di volo rigorose che producevano piloti addestrati e preparati, programmi di addestramento e formazione dei soldati ed ufficiali molto efficienti e così via. I tedeschi sono andati in crisi nel momento in cui si sono aperti loro il secondo fronte, da soli. Parli di fattore umano (motivazione, tattiche, ecc), ma anche questo è correlato con "i numeri": chi è più motivato a combattere, un soldato USA nel 1945 che sa di essere in una delle nazioni più forti al mondo o un soldato di una divisione decimata della Wehrmacht che intuisce che la guerra è perduta?


    Ma nessuno è così ingenuo da ritenere il PIL come variabile "omnicomprensiva" per spiegare il "valore" di una nazione. Il PIL è una variabile di contabilità nazionale, non individua il benessere (tutt'altro), il progresso scientifico o altro. Con tutti i limiti del caso però, è una proxy per individuare il potenziale industriale di una nazione. E' un dato di fatto che se il totale della tua industria, come nel caso del Giappone, fattura quanto la Ford, hai poche chance di vincere una guerra d'attrito con gli USA. Il tuo avversario potrà recuperare in caso di sconfitte disastrose, tu no. E difatti, estremizzando il tutto, questo è esattamente quello che è avvenuto. Guarda i numeri citati da Rob sulla produzione di portaerei di linea fra USA vs Giappone sul forum di AE per capire che il fattore umano in questo confronto è del tutto trascurabile, la disparità sui numeri è troppo elevata. Per la Germania, il discorso non cambia di molto.

    Saluti
     
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    Ultima modifica: 3 Gennaio 2014
  10. Lirio

    Lirio

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    Mi sembra di capire che vi siano due scuole di pensiero.
    Da una parte, coloro che ritengono che la guerra sia fatta di numeri, e che il PIL costituisca una proxy sufficientemente attendibile, pur con i suoi indubbi limiti, per palesare la capacità di sostenere una guerra, e dall'altra coloro che ritengono che tale ragionamento sia limitativo e fuorviante.
    Mentre per i primi la sola lettura dei numeri sulla carta consente di comprendere non solo come e' andata una guerra, ma anche di capire che ragionevolmente non avrebbe potuto andare in modo difforme, per i secondi i criteri quantitativi, da soli, non sono sufficienti a spiegare il passato, ne' a spiegare il perché di una sconfitta, annunciata o meno.
    Inverno muto pone una domanda interessante, suggerendo che anche i valori qualitativi (se con questo si intende motivazione al combattimento, ecc.) dipendono in larga misura da quelli quantitativi. Ho letto qualcosa sulla sfiducia che serpeggiava anche nelle file dell'esercito tedesco, ma mi piacerebbe saperne di più, almeno negli ultimi 3 anni del conflitto (grossomodo dopo gli ultimi insuccessi sul secondo fronte, credo che si intenda quello orientale, già nel 1943). Mi interesserebbe saperlo, forse però sarebbe opportuno aprire un secondo dibattito, non vorrei come mio solito andare fuori tema e disturbare la discussione. Tornando in tema, e scusandomi per la digressione, mi viene in mente la lettura delle tabelle di rob, inerenti alla produzione di navi nel Pacifico. Io stesso, giocando la simulazione a witp, mi rendo conto della enorme capacità produttiva americana, e sono solo agli inizi del 1943. Eppure, se ragioniamo di spirito combattente e di determinazione (valori qualitativi, credo), penso sia difficile ritenere che esistesse un esercito più determinato di quello giapponese, la cui storia militare ed i cui valori sono ben noti.
    Penso, forse sbagliando, che la scelta di usare i kamikaze, termine ahimè ancora attuale, sia un modo per un esercito in forte svantaggio di ribaltare con il fanatismo le possibilità di vittoria. Non pare sia stato sufficiente, almeno nella ww2, a fermare lo strapotere americano, almeno nel Pacifico. Ritengo anche, forse sbagliando ancora, che la scelta americana di sganciare due bombe atomiche sia stata determinata, almeno in parte, dalla volontà di evitare uno scontro armato sul suolo giapponese, che probabilmente avrebbe portato decine di migliaia di morti tra le fila degli americani. Non entro nel merito morale della questione (se i morti civili giapponesi siano giustificabili su tale altare), sta di fatto che la superiorità tecnologica ed economica ha piegato con la violenza un esercito determinato a non arrendersi, come anche le storie dei singoli combattenti giapponesi spersi nelle isole trenta e oltre anni dopo sono a dimostrare.

    Tutto ciò considerato, credo che il dibattito sia molto interessante.
    Il divario dei numeri militari quanto conta nella vittoria? La diversità di potere economico quanto influisce nel primo divario?
    E infine, quali sono i valori qualitativi in grado di ribaltare il risultato che la fredda logica dei numeri sembrerebbe dimostrare?

    Credo che queste siano le tre domande che riassumano, seppure in modo superficiale e impreciso, il confronto tra le due teorie.
    Forse, provando a fornire delle risposte, cercando di fornire esempi e circoscrivendo il campo alla seconda guerra mondiale cui si riferivano le tabelle inizialmente pubblicate, potremmo fare un passo avanti nel ragionamento.
    Io non sarei in grado di farlo, ma non dubito che i sostenitori delle due tesi potranno fornire un utile e prezioso contributo a questa interessante discussione.
     
  11. GyJeX

    GyJeX

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    se vuoi conoscere gli stati d'animo dei soldati poi leggere le loro memorie, spaziando da guy sajer a leon degrell ( :whistle: ) a saburo sakai a Sven Hassel ( :finger: ) etc...etc...
     
  12. Invernomuto

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    Lirio, io non vedo nessuna contrapposizione fra scuole di pensiero. Mi mi limito a sostenere, molto banalmente, che in un periodo storicamente limitato come una battaglia i "numeri" (sintetizzabili con una stima del PIL) possono avere scarso peso, nel contesto di una guerra pluriennale e globale come la WW2 diventano un fattore *determinante* che supera di gran lunga tutto il resto.
    In una battaglia ci può stare che non vinca il Paese che non possiede i "numeri" migliori: in quel caso sono determinanti l'abilità dei comandanti e dei subordinati nel gestire meglio le risorse a disposizione rispetto al nemico. Ma se allarghiamo l'orizzonte a situazioni di conflitto pluriennale, vince chi fornisce ai propri soldati l'addestramento, l'equipaggiamento e i mezzi migliori (in sintesi, chi produce di più, ovvero, semplificando all'osso, la % di PIL destinata al comparto militare), specie in un contesto di guerra moderna, dove sono i mezzi a farla da padrone.
    Francamente mi sembra un concetto talmente ovvio che non vedo cosa ci sia da discutere.
    Hai citato i Giapponesi: motivati fino alla fine eppure schiacciati dalla macchina bellica USA. Da metà 1943 in avanti non c'è stato più confronto, i giapponesi sono rimasti sostanzialmente al palo, gli USA producevano invece mezzi quantitativamente e qualitativamente sempre migliori. Anche il vantaggio in termini di "fattore umano" è andato diminuendo, basti pensare al confronto sulla qualità dei piloti fra i due contendenti. Puoi pure avere i piloti migliori al mondo, ma se li fai sedere su un Oscar e devono affrontare dei piloti nemici che stanno su dei Corsair, alla lunga rimani senza...
    Per i tedeschi, fatte le debite proporzioni, il discorso non è dissimile...

    Ciao
     
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  13. Lirio

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    ma perchè del povero sven, del quale ho letto tutti (e dico tutti) i suoi libri, devi mettere il dito medio?
    ma poverino...:woot:
     
  14. Lirio

    Lirio

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    Invernomuto,
    il tuo punto di vista mi è chiaro.
    Mi era parso di capire invece che ci sia proprio un dibattito tra due tesi nettamente contrapposte, ma forse ho frainteso.
     
  15. Invernomuto

    Invernomuto -

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    In passato la contrapposizione c'era, la "storia economica" è stata spesso considerata la "parente povera" della storia, anche perché, soprattutto in questo Paese, c'è una certa resistenza ad abbattere le barriere fra "cultura umanista" e "cultura scientifica", quasi come se fosse possibile far viaggiare le due su binari separati...
    Ormai però il periodo della storia basata solo sugli "uomini e date" è - per fortuna - tramontato, oggi un'analisi storica seria DEVE tenere in giusta considerazione *tutti* i fattori, anche e soprattutto quelli quantitativi.
     
  16. rob.bragg

    rob.bragg

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    Penso che sia passato inosservato un passaggio del libro di Broadberry & Harrison citato precedentemente

    Nel mondo post-rivoluzione industriale, nel mondo 'delle macchine' (e non più degli 'eroi') un grande potenziale industriale, tendenzialmente, consente di risolvere molto più facilmente anche i problemi umani (educazione, motivazione) ed organizzativi (efficienza). Gli USA non solo avevano risorse e potenziale industriale 'n' volte superiori rispetto a quello degli avversari, producendo di tutto e di più, ma potevano anche permettersi di allocare le risorse umane in modo più efficace ed efficiente (forze armate 'capital-intensive', diversamente da quelle 'human-intensive' degli avversari ed anche dell'URSS), proprio perchè godevano di tale superiorità 'materiale'.

    Io non sono certo un 'fan' del PIL (e la frase di Robert Kennedy da sempre nella mia firma ne è la prova), né un gretto 'materialista'. Ma sono realista. Nel XX secolo la strategia, gli eserciti e la loro capacità di combattere (logistica in primis) dipendevano innanzitutto dalle risorse e dalla capacità industriale delle nazioni. Condivido pienamente la frase di Invernomuto : <<mi sembra un concetto talmente ovvio che non vedo cosa ci sia da discutere>>

    Consiglio il libro di Martin Van Creveld, 'Supplying War', per meglio comprendere gli insuperabili problemi della Wehrmacht in Russia.

    E non capisco proprio che senso abbia la contrapposizioni tra 'cultura umanistica' e 'capitalismo', dato che sono cose che viaggiano su piani totalmente diversi.

    Tutte le grandi potenze della II GM avevano, in grado differente, imboccato la via dell'industrializzazione capitalistica (privata o di stato), indipendentemente da quella che era stato il loro percorso culturale nei secoli precedenti. Ma il loro grado di sviluppo e il loro potenziale era molto differente. Ciò determinò scelte, anche strategiche, fondamentali : gli USA poterono motorizzare interamente le loro 100 divisioni, e costruire e gestire una flotta navale ed aerea di dimensioni immani. La Germania non aveva risorse naturali ed industriali per la motorizzazione completa della Wehrmacht o, ad esempio, per la costruzione di bombardieri strategici in quantità significativa. Il Giappone entrò in guerra per evitare che la sua flotta rimanesse senza petrolio, ma dopo aver conquistato i pozzi delle DEI, non ebbe risorse sufficienti per costruire le navi mercantili e di scorta necessarie per garantire il flusso di rifornimenti.

    Gli USA avrebbero potuto perdere decine di battaglie e combattere per molti altri anni : avevano le risorse e le capacità per farlo; gli altri no : nel 1945, vincitori o sconfitti, erano tutti stremati. Puntare su forze armate 'capital-intensive' aveva consentito loro anche di ridurre enormemente le perdite umane sui campi di battaglia ...
     
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  17. Amadeus

    Amadeus

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    N.B. Ho scritto in contemporanea a rob.bragg quindi sono ripetuti aluni elementi presenti nel suo messaggio di qualche minuto fa ma penso che possiate sopravvivere a tutto ciò :D e non vi confonderete, quindi non cambio nulla al mio post, salvo questa nota iniziale.

    La discussione è molto interessante ma non so se, avviandola verso una supposta antitesi fattori umani-fattori materiali, si caverà il proverbiale ragno dal buco. Anche perché mi pare ineludibile la conclusione che se consideriamo realmente separati ed irriducibili l'aspetto dei "mezzi" e quello "umano", stiamo presupponendo un irriconciliabile dualismo ontologico di fondo. Se qualcuno vuole farlo, si accomodi pure, ma ne sia consapevole!

    Innanzitutto sgomberiamo il campo da un equivoco: non credo ci sia nessuno (almeno tra coloro che hanno partecipato a questo thread) che sostenga che il vincitore di una qualsiasi guerra sarà indubbiamente (o anche solo il 99% delle volte) lo Stato che ha il PIL più elevato. Una tesi del genere sarebbe smentita presto dai fatti e quindi non credo abbia molti sostenitori... al di fuori della Flath Earth Society!

    Ciò che molti sostengono (e mi ci metto in mezzo anch'io) è che, qualora un conflitto tenda a quella che già von Clausewitz chiamava "impiego assoluto della forza", chi è più forte economicamente avrà di gran lunga le maggiori possibilità di vittoria. E, già che ci siamo, sarà anche utile ricordare che von Clausewitz stesso afferma che la capacità di resisteza di uno Stato belligerante si manifesta nel prodotto di due fattori: entità dei mezzi disponibili e forza di volontà. Vabbe', è inutile che vi faccia il riassunto del Libro primo del vom Kriege, in primo luogo perché non ho né il tempo né la competenza per farlo, in secondo luogo perché immagino che molti di voi lo conoscano anche meglio di me.

    Però voglio ritornare sul discorso della "capacità bellica" intesa come prodotto di un fattore umano e di un fattore materiale. Innanzitutto (essendo un prodotto) va da sé che se uno dei due termini tende a zero il prodotto stesso tende a zero, quasiasi sia l'entità dell'altro fattore.
    Intuitivamente la spiegazione appare convincente: un giocatore di poker bravo e determinato potrebbe vincere al tavolo da gioco scontrandosi con un miliardario pavido. Certo, difficilmente riuscirà ad azzerargli il partimonio, ma potrebbe uscire vincitore da quella che, ceteris paribus, sembrava una lotta persa in partenza.
    Qualcosa di simile è successo spesso nella storia: gli esempi abbondano, dalla guerra di successione austriaca al Viet Nam.
    L'approccio altamente astratto (ed idealistico) di von Clausewitz impedisce, a mio modesto avviso, al pensatore prussiano di cogliere appieno le interrelazioni tra questi due fattori (a parte una generica interazione dialettica), ma su questo dirò dopo.

    Passo adesso alle "conclusioni" di Harrison che molto dibattito, hanno qui generato; cito di nuovo i passaggi rilevati:

    "The main lesson that has emerged from our study of the world wars of the twentieth century is that peace is better than war. The best that can be said for World War II is that a positive spin-off was a common understanding of this
    lesson. Because of this, the main participants in World War II cooperated after the war to promote recovery and trade. As a result, global economic growth in the half century after World War II was much faster than in the half century before it. In contrast, only some of the participants in World War I came away with this understanding. Others believed that the lesson of the war was to wage war again, only better. Hence World War II."


    Personalmente non leggerei molto in queste affermazioni, che mi sembrano (volutamente) ironiche e semplicistiche. Credo che le conclusioni importanti di Harrison, siano ben altre.
    Va da sé che ha ragione Silvan quando fa notare che le guerre non sono mai state fatte nell'illusione di creare ricchezza ma solo nella convinzione di poter distribuire diversamente la ricchezza che sopravvive al conflitto. La dicotomia guerra (male) - commercio (bene) perde assolutamente senso se si riflette sul fatto che, se la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, anche il commercio e la finanza internazionale lo sono. Insomma (ed è quello che stavo tentando di dire nel mio messaggio precedente con il confronto semiserio tra le scelte politiche dei cancellieri tedeschi negli ultimi cento anni) fermo restando il desiderio di imporre la propria volontà ad altri, si utilizzerà il metodo che si riterrà più espediente. Se c'è una sfida tra me e Tyson, è chiaro che io voterà per giocarsela a scacchi e lui a cazzotti, ma non perché io sono buono e lui cattivo, ma semplicemente perché ognuno punta al metodo che ritiene per sé più vantaggioso. Chiaramente se io dovessi sfidare un avversario che abbia il cervello di Kasparov rinchiuso nel corpo di Alvaro Vitali, potrei anche pensare di rinunciare agli scacchi e proporre la boxe...

    Certo, "guerreggiare" con le merci è, per molti versi, preferibile a guerreggiare con le bombe, nella stessa misura in cui i 35 anni di carcere inflitti a Bradley Manning sono preferibili all'impiccaggione, sventramento e squartamento inflitti a Guy Fawkes ma, anche in questi esempi, cambia la forma ma l'idea di fondo, anche a quattrocento anni di distanza, è la medesima: i traditori vanno puniti con il maggior rigore possibile.
    Sia chiaro, non voglio mettere sul medesimo piano Hitler e la Merkel, le differenze essenziali sono talmente tante che non vale neppure la pena sottolinearle. Però mi preme assolutamente sottolineare che finché ci troveremo in un mondo in cui esistono diversi gruppi di persone con interessi oggettivamente contrapposti, pensare che possa esistere una win-win solution estendibile al mondo intero o, peggio, pensare che i capi di stato delle maggiori potenze stiano alacremente lavorando in tal senso mi sembra di una ingenuità disarmante.

    Per evitare di finire definitivamente in OT, riprendo a discutere di quella che, secondo me, è la vera conclusione importante di Harrison &c, accennata da Rob in un messaggio precedente. Riporto l'intero capitolo in quanto lo ritengo particolarmente utile per chiarire il punto di vista degli autori:

    "Where, in all this, is there room for factors other than the economic ones? Reviewing our previous work on World War II the historian Richard Overy objected that we left no role to “a whole series of contingent factors – moral, political, technical, and organisational – [that] worked to a greater or lesser degree on national war efforts.” Such factors were clearly significant in World War I, and economists have considered why they must matter in principle yet we do not apologise for giving due weight to the quantities of resources.

    At first the two sides were unequal in military and civilian organisation, motivation, and morale. Germany entered the war with first-rate military advantages associated with “the most formidable army in the world”, past victories, and the exploitation of initial shock and rapid movement. But the effects of looming defeat electrified Britain and France, transformed public opinion, and forced their armies and governments through intensive courses in the new rules of warfare and mobilisation. This proved to be the pattern through the war: each temporary setback was
    followed by strenuous efforts to refine strategy and strengthen morale and organisation, and these efforts generally succeeded within the limits permitted by the resources available to support them. In short, the “moral, political,
    technical, and organisational” issues of the war on each side were not independently variable factors but proved to be endogenous to the progress of the war. Other things being held equal, a deficit of organisation or morale on
    one side tended to be overcome through a self-balancing process. The one thing that could not be overcome was a deficit of resources.


    This approach is well illustrated by comparing the two offensives that appeared to give Germany its best chances of winning the war: August 1914 and March 1918. In the first of these Germany planned to exploit mass, movement, and surprise to destroy the French Army before the British could intervene in the West and before the Russians could mobilise in the East. In practice the German army succeeded in many of its planned objectives but failed in the ones that were vital. The stalemate of the trenches resulted. Had the German plan succeeded the economic factors on each side would never have had time to be felt. Given that it did not, the richer Allies won time to put right their military and organisational failings, but they could not have done so without resources on their side.

    Its spring offensive in 1918 again seemed to offer Germany the prospect of winning the war on a purely military advantage. For the first time since 1914 its soldiers opened up great gaps in the Allied lines and advanced dozens of
    kilometres towards the Channel ports. The offensive badly shocked the Allies and forced them into reorganisation; the Americans had to accept a unified command. Resources defeated the advancing Germans: their own lack of supply, for they were badly clothed and undernourished even before they began their advance; the abundance of supplies they found in the Allied trenches that caused many to turn away from the attack to eat and drink their advantages away (Herwig, 1988: 102); and the superabundance of war materials that enabled the Allies to regroup and go on to inflict a far greater
    defeat on the exhausted enemy."

    (enfasi mie)

    Tornando al prodotto vm (volontà per mezzi) di von Clausewitz, che definisce la capacità bellica di una fazione, Harrison non nega la presenza del fattore v ma sottolinea come, a suo avviso, questo fattore non sia indipendente da m, ma ne sia in qualche modo funzione (non esclusiva). In un certo senso, per Harrison, si potrebbe riscrivere la formula come p = m·v(m).
    Sia chiaro che sto scrivendo questa formula solo per giocare con le parole e chiarire quella che, secondo me, è l'idea di fondo del nostro. Non penso ci sian alcun numero che possa essere veramente inserito in una espressione di tal fatta, altrimenti, per citare le parole di Engels relative ad un altro (ma anche no) caso di incomprensione dei rapporti tra il lato "umano" e quello "materiale": "[...]se non fosse cosí, l’applicazione della teoria a un periodo qualsiasi della storia sarebbe piú facile che la soluzione d’una semplice equazione di primo grado".
     
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  18. Lirio

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    beh, dai, proprio inosservato no.
    Io avevo commentato:
    "Interessante.
    In sostanza, il più ricco vince, e' una sintesi corretta?"

    e da lì il FUBAR:joyful: (ci tengo da matti) di GyJex!
     
  19. Lirio

    Lirio

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    Ti ringrazio, @Amadeus, perchè hai risposto alle mie forse banali domande.
    La formula finale, chioserei, è una conferma dell'ipotesi di Invernomuto della non indipendenza delle due variabili.

    L'unica cosa su cui parzialmente dissento è sul fatto che non possa esistere una win win solution, sarà che sono un inguaribile ottimista. So bene che pensare che i capi di stato delle maggiori potenze stiano lavorando per un benessere collettivo è di una ingenuità disarmante. Appare altresì chiaro a tutti che tutte le guerre siano sempre, in ogni epoca, state fatte non per creare ma per ridistribuire (termine edulcorato per dire conquistare) ricchezze, anche se il mostro tricefalo dell'ideologia, dell'irrazionalità e dell'ignoranza, al quale ho fatto cenno, ha le sue colpe, a prescindere dalle ragioni economiche. Quel che io chiedo è altra cosa. Esiste uno studio, economicamente rilevante e scientificamente rigoroso, che abbia tenuto conto non solo del guadagno di una guerra ma anche del costo, includendo nel costo anche il costo delle opportunità perdute, analogamente a quanto si dovrebbe fare in ogni scelta razionale di investimento di risorse? Io non credo. Non sono così' ingenuo o sprovveduto da pensare che sia applicabile al mondo intero, ma sono convinto che una evoluzione della specie umana e un progresso culturale e cognitivo, anche di matrice giuridica, come del resto tu stesso hai ricordato in altri dibattiti - possa portarci nella direzione giusta. Per direzione giusta intendo un mondo nel quale si acquisisca la consapevolezza culturale del fatto che la guerra, come strumento di prosecuzione della diplomazia con altri mezzi, per citare qualcuno, non è affatto un mezzo economicamente analogamente efficiente, e certamente non il più efficiente. Per tacer della morale.

    E questa cosa, permettetemi di insistere, sarà forse banale, ma non è affatto cosa nè nota nè accettata dai più, nel mondo, al di fuori di questo forum, il cui livello culturale non è certo una proxy della media italiana.
     
  20. Amadeus

    Amadeus

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    @Lirio
    Può darsi che anche tu abbia letto in passato il simpatico libro, del (recentemente scomparso) Marcello D'Orta, intitolato Io speriamo che me la cavo. In questo vario florilegio di temi di bambini napoletani ne ricordo uno in cui l'autore, dovendo dividere gli animali tra buoni e cattivi, metteva nel primo gruppo il leone (con la specifica: quando ha mangiato) e nel secondo gruppo sempre il leone ma quando non ha mangiato. :lol:

    Ora, prima di finire a fare una classifica delle organizzazioni sociali buone o cattive, mettendo nel primo gruppo il capitalismo, quando commercia, e nel secondo il capitalismo, quando fa le guerre, siamo sicuri che sia possibile rispondere alla tua domanda senza specificare dal punto di vista di chi si dovrebbero valutare le opportunità guadagnate o perse?
     
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