Al Sergente Leonardo Vannetti l’ordine di trasferimento al reggimento di Cavalleggeri di Lodi non era piaciuto nemmeno un po’, se non altro perché aveva provocato il rimpatrio d’urgenza a Napoli, ma senza nemmeno la possibilità di un giorno di licenza, con imbarco immediato su una grossa motonave per destinazione sconosciuta. La destinazione era rimasta sconosciuta sino a quando la nave, o meglio il grosso convoglio di navi su cui viaggiava non fu ben addentro al Mediterraneo Orientale. Infatti una mattina, insieme all’annuncio che avevano oltrepassato l'ultimo meridiano di Creta, arrivò anche la notizia che la loro missione era un’operazione sul Canale di Suez che la Gran Bretagna aveva abbandonato, per evitare che finisse alla mercé degli agenti americani e sovietici con conseguenze disastrose per l’Italia. Il nuovo reggimento di Vannetti era inquadrato nella brigata di fanteria Firenze, la più giovane brigata del Regio Esercito costituita da appena un anno. Gli era stato affidato il comando di un veicolo VM-90 Protetto e della relativa pattuglia esplorante, cioè lo stesso ruolo che aveva nel reparto esplorante della Garibaldi. Tutte le compagnie esploranti delle brigate italiane erano state portate a livello di reggimento (battaglione) qualche mese prima, su uno squadrone leggero, due squadroni autoblindo centauro ed una batteria di mortai. Il primo briefing operativo di plotone si era tenuto che ancora la nave stava navigando con tempo brutto verso la costa egiziana. Vannetti si era ritirato dalla coperta stipata di Centauro e VM del reggimento nonché di Marder del 7° reggimento Bersaglieri, per recarsi al briefing. Il 9° Reggimento di Fanteria Napoli ed l’82° Reggimento di Fanteria Torino, erano imbarcati su un’altra nave. Il Sottotenente Gradoli aveva spiegato che i reggimenti da sbarco avrebbero assaltato le spiagge intorno a Port Said e che una volta che avessero reso sicuri città e porto, la brigata avrebbe preso terra per proseguire le operazioni e conquistare il delta del Nilo. Dopo la fanteria della brigata, sarebbero sbarcati i mezzi pesanti e cioè il reggimento. Quindi non avevano nulla di cui preoccuparsi; il reggimento cavalleggeri di Lodi era terza ondata. Adesso, mentre Vannetti osservava i fanti dell'82° Reggimento Torino riordinare l’equipaggiamento e le armi, capì che c’era stata una variazione sul programma di cui non era chiaro motivo. Certo pareva che sarebbero sbarcati in anticipo. Quello che Vannetti ignorava ma che circolava come notizia ufficiosa tramite radio burba, era che gli Egiziani erano riusciti a portare a difesa di Port Said una brigata corazzata e gli sforzi del Reggimento San Marco e di quello della Serenissima per conquistarla si erano rivelati non solo infruttuosi, ma pure dispendiosi. I lagunari però, fedeli alla loro caratteristica denominazione, erano riusciti ad infiltrarsi attraverso il terreno acquitrinoso sul fianco sinistro delle difese egiziane ed avevano scoperto che il nemico aveva commesso un errore: non aveva praticamente lasciato nessuno a guardare la strada che da sud arrivava a Port Said. Gli esploratori della serenissima, arrivati quasi sul canale alle spalle della città avevano individuato solamente un piccolo reparto con jeep e veicoli leggeri, che probabilmente era un comando egiziano. Il grosso del reggimento lagunari attaccava invece Port Said da sud ovest per agevolare il compito del San Marco. Purtroppo anche Il secondo attacco dei due reggimenti marittimi veniva respinto, ed un elicottero da attacco Mangusta abbattuto da un missile spalleggiabile. Tutto ciò costituiva il motivo per il quale il Sergente Vannetti vedeva adesso i fanti del Reggimento Torino prepararsi al combattimento. Sarebbero sbarcati sulla spiaggia evacuata dai Lagunari ed avrebbero rinforzato l'attacco su Port Said. Questo i fanti del Torino ancora non lo sapevano. Avevano ricevuto l'ordine di prendere terra a ovest del porto e di stare attenti perché la resistenza nemica non era ancora stata del tutto domata. I problemi italiani peraltro non finivano qui: all’estremo sud del fronte, i rinforzi al Reggimento di Carabinieri Paracadutisti Tuscania erano arrivati come promesso, sotto forma dell’ 8° Reggimento Guastatori Paracadutisti Folgore e del 185° Reggimento Artiglieria Folgore; il primo elitrasportato in città ed il secondo sulla sponda est del canale in corrispondenza della città. Il guaio era però che gli Egiziani erano riusciti a concentrare contro Suez l’intera loro terza armata ed attaccavano furiosamente con tre brigate. A carissimo prezzo, ma attaccavano. Il Terzo attacco consecutivo aveva lasciato i Carabinieri ed i Guastatori aggrappati a poche case intorno agli approdi del canale ed il Tuscania era quasi distrutto. Naturalmente anche gli Egiziani avevano subito pesantissime perdite, ma il problema era che essi superavano gli Italiani per numero in ragione di più di 3 a uno e la situazione si faceva pesante, per cui il comando galleggiante dell’operazione Artiglio su nave S. Giusto cominciò a valutare l’opportunità di abbandonare Suez ed evacuare le truppe con gli elicotteri. L’alternativa, e cioè tentare di tenere Suez mandando in soccorso aliquote degli altri due reggimenti di paracadutisti che combattevano intorno ad Ismailia presentava due grandi incognite: sarebbero riusciti gli uomini del 186° ad arrivare in tempo? E quelli del Tuscania sarebbero sopravvissuti?. Giustamente il Generale Garofali non poteva permettere che il reggimento dei carabinieri venisse distrutto. Una cosa era ritirarlo e riorganizzarlo, un’altra era ricostituirlo da zero senza un nucleo di istruttori da cui partire. Per cui ci si sarebbe dovuto pensare su molto bene prima di decidere la linea d’azione. A complicare ulteriormente le cose arrivò la comunicazione del Generale Bardelli, comandante della Garibaldi, che la brigata doveva arrestarsi temporaneamente per rifornire di carburante munizioni e riparare i carri del 4° reggimento che erano stati messi fuori combattimento dagli Egiziani. Per cui la brigata si arrestava temporaneamente sulla litoranea con i due reggimenti bersaglieri in prima schiera e vigilanza in attesa di poter riprendere l’avanzata. Il Generale Garofali, mentre pensava che il Generale Rommel si stava probabilmente rivoltando nella tomba, esortava il subordinato a darsi una mossa e a fare un sosta il più possibile breve. Il Colonnello Colombo, comandante del Tuscania, apprese con un misto di vergogna e sollievo che il suo sfasciato reggimento sarebbe stato evacuato nel più breve tempo possibile dall’abitato di Suez. L’evacuazione sarebbe avvenuta naturalmente con gli elicotteri della Marina ed insieme a lui, pure i guastatori e gli artiglieri con i loro mortai pesanti sarebbero stati evacuati. Il Tuscania tornava dunque in Italia per essere riorganizzato, mentre l’8° Guastatori Paracadutisti avrebbe atteso i rimpiazzi a bordo di nave S. Giorgio. Il 185° Artiglieria Paracadutista veniva invece reindirizzato su Ismailia, dove avrebbe continuato a combattere. Era così doloroso che il primo fallimento dell’operazione Artiglio e più in generale di questa nuova ed improvvisa guerra, avesse dovuto toccare proprio al primo reggimento d’Italia: il reggimento dei carabinieri combattenti dell’aria. D’altra parte Colombo non poteva rimproverarsi nulla. Il reggimento aveva combattuto e non aveva ceduto un centimetro delle posizioni occupate all’inizio dell’operazione. Aveva solo perso quello che aveva guadagnato dopo lo sbarco aereo. La responsabilità di evacuare il Tuscania era sulle spalle del Generale Garofali, che così aveva ordinato al suo diretto subordinato, Generale Mau, comandante del Corpo d’Armata d’Assalto. Il suo reggimento non aveva subito nessuna sconfitta, così come mai ne aveva subite durante la sua lunga e gloriosa storia. Paracadutisti italiani, tristi ma invitti, si preparano all'evacuazione da Suez. Gli abitanti fanno finta di essere dispiaciuti.
Sottopongo alla vostra attenzione questo articolo apparso sul New York Times a firma dell’eminente storico Italiano Franco Zucchetti, famoso in Italia ed all’estero per la sua pregevole opera “L’Italia nella Grande Guerra”. Come noto Zucchetti si trasferì negli Stati Uniti d’America alla fine degli anni 70 in quanto perseguitato professionalmente in Italia a seguito proprio della sua monumentale opera che non ha trovato il gradimento del regime. Dagli Stati Uniti Zucchetti ha continuato la sua opera di informazione e divulgazione sulle questioni politiche italiane ed internazionali. Dall’eccessiva aggressività Italiana nel dopoguerra all’avventurismo egiziano Dall’analisi della politica internazionale a partire dalla fine della grande guerra sino ad oggi, non si può fare a meno di notare come la conduzione italiana di tale politica sia stata la più vocifera e marcatamente più anti-Bilaterale tra tutte le politiche delle potenze della triplice. E c’è da chiedersene i motivi dal momento che alla vigilia della Grande Guerra, l’Italia era la potenza meno invisa ai paesi della Bilaterale stessa e quella che era stata fatta oggetto in particolar modo dagli Stati Uniti dei tentativi di distaccarla dalle cupe e grigie potenze imperiali francese e tedesca. Come ben sappiamo tali tentativi fallirono e l’Italia, seppur con qualche mese di ritardo entrò in guerra non appena fu chiaro che una volta iniziate le operazioni la Bilaterale puntava allo smembramento dei possedimenti coloniali italiani non meno che di quelli delle altre potenze che ne avevano. L’Italia si trovò così a combattere come è noto la sua disperata guerra difensiva, perché di guerra difensiva si trattò al di là della retorica fascista di ieri e di oggi, nel Mare Mediterraneo ed in Africa Orientale contro le forze Americane che riuscivano periodicamente a trafilare dai ben più determinanti teatri Atlantico e Pacifico, dove in fondo i veri destini della guerra si decidevano e dove persino gli Stati Uniti dovettero venire a patti con il Giappone per evitare che questi entrasse direttamente in guerra contro la Bilaterale e si limitasse alle operazioni contro la Cina Ed infatti i Cinesi ne sanno qualcosa, visto che sono oggi una nazione vassalla e la cui economia è totalmente asservita all’egemonia dell’impero Giapponese; egemonia con quale in qualche modo oltre alla Bilaterale devono fare fronte anche le potenze della triplice ed i loro satelliti. Mentre si compiva la fine della Royal Navy come potenza navale dominante sul pianeta, nel titanico scontro con la Marina Americana, solamente con l’appoggio ed il sacrificio determinante della Bundesmarine e della Marine Nationale, come è noto, si riusciva a contenere la strapotenza della US Navy, e ad impedire in ultima analisi l’invasione americana della Gran Bretagna e della Francia, operazione che se portata a termine con successo avrebbe decretato la sconfitta della Triplice e della sua forzata appendice britannica. Il problema dell’Italia fu che essa fu sostanzialmente lasciata da sola dagli alleati a gestire la responsabilità del Mediterraneo e non fece, occorre riconoscerlo, una brillante figura: Impreparazione, improvvisazione e scarsa attitudine della classe dirigente a partire del ramo della famiglia reale allora al potere e a finire con gli alti vertici delle forze armate, e di quelli finanziari ed industriali, fecero si che a mala pena l’Italia riuscì a difendere la Libia dalla grande operazione aeronavale americana in Nord Africa. Il Generale Patton con la sua celebre offensiva in Tunisia, sconfisse le truppe italo-francesi che la difendevano e penetrò profondamente in Libia, ricacciando le forze Italiane e le poche superstiti unità francesi (ricordiamo che il grosso dell’Armée de Terre era concentrato sul fronte Est e nella difesa delle proprie coste atlantiche) praticamente fino al confine egiziano. Non fu nemmeno scevra da marchiani errori strategici la conduzione della guerra italiana come quello ad esempio dell’invio del Corpo di Spedizione Italiano in Russia (CSIR), coinvolto fatalmente, dopo la controffensiva sovietica, nella celebre e per la Triplice infausta, battaglia di Cracovia. Come si ricorderà in quella battaglia la 13a armata Tedesca venne accerchiata e distrutta e con quella pure il CSIR che agli ordini di quell’armata si trovava. Come è noto pochissimi furono i sopravvissuti che nel terribile inverno del 47, scamparono alla distruzione del corpo italiano. Quando la guerra finì per esaurimento e per il terrore provocato dagli effetti dei primi scambi di armi atomiche tattiche sul fronte est, dove i Franco-Tedeschi risposero colpo su colpo alle prime provocazioni russe, e si capì che era meglio venire tutti a più miti consigli, l’Italia si ritrovò dalla parte dei vincitori; ma quanto aveva contribuito al successo della Triplice. Se escludiamo la brillante vittoria del Duca D’Aosta sugli Americani in Africa Orientale che comunque era stato un episodio abbastanza a sé stante nell’economia generale del conflitto, non molto. E non molte altre erano state le imprese gloriose dei condottieri e dei combattenti italiani nella Grande Guerra, se consideriamo gloriose quelle imprese concluse con una vittoria. A questo si aggiunse nell’immediato dopoguerra il trauma del cambio della casa regnante, giacché non solo il ramo Carignano dei Savoia era stato messo in ombra dalle imprese militari del Duca d’Aosta che in prima persona aveva rischiato la vita contro gli Americani in Africa Orientale, ma fu pure compromesso politicamente e moralmente quando venne alla luce, alla fine delle ostilità, il tentativo di Vittorio Emanuele III e del Capo di Stato Maggiore Pietro Badoglio di intavolare trattative di pace separate con la Bilaterale, quando sembrava che gli Americani stessero conseguendo una vittoria totale contro di noi in Libia. La cosa avrebbe probabilmente aperto la strada ad un’invasione diretta della Penisola italiana e la casa regnante non aveva retto allo stress. La macchinazione ordita pure alle spalle del Governo non fu portata alle estreme conseguenze perché alla metà del 48 furono mandati in Africa Settentrionale, come racconta la storia delle operazioni militari, l’Afrika Korps del Generale Rommel e la 13a Brigata di cavalleria pesante della Legione Straniera del Generale Leclerc, che riuscirono a contenere l’offensiva americana e poi anche a contrattaccare, riconquistando Libia e Tunisia e ricacciando gli Americani fuori dal Mediterraneo. Queste forze alleate operavano formalmente sotto il nostro comando, ma i Generali Rommel e Leclerc non erano esattamente i subordinati modello ad un esercito che erano venuti a salvare; e e per una serie di ragioni discusse ampiamente nella mia opera L’Italia nella Grande Guerra, operarono praticamente indipendenti da ogni azione di comando italiana e si presero forse anche giustamente il merito della riuscita controffensiva. Altro colpo purtroppo al prestigio italiano. Ritorniamo quindi al titolo di questo articolo, che invito il lettore ad andarsi a rieleggere. Che l’Italia in quanto potenza minore o percepita tale nella triplice nel dopoguerra abbia assunto l’atteggiamento più pestifero nei confronti dell’altro polo strategico nella continuazione della quella guerra con altri mezzi, è comprensibile. Che il presunto ruolo minore (nella Grande Guerra) gli alleati non ce l’abbiano fatto mai pesare più di tanto, è storicamente provato; basti pensare alla questione del Sudan. Che la pazza corsa al nucleare, alle basi oltremare ad ogni costo ed alle ambizioni di potenza transoceanica sia una conseguenza del percepito ruolo minore nell’ambito dell’alleanza, mi pare assodato. Credo però che la strada che l’Italia ha imboccato con questa recente avventura in Egitto sia un passo di troppo, lungo una strada molto pericolosa, che potrebbe compromettere quello che l’Italia ha ottenuto sinora in ambito internazionale; che potrebbe farle perdere lo status di potenza mondiale, e che nel caso peggiore potrebbe anche precipitare il mondo in una seconda guerra mondiale che nessuno vuole, a partire proprio dagli Stati della Triplice. Certo questa sarebbe una guerra di natura profondamente diversa rispetto alla Grande Guerra. L’esistenza degli arsenali nucleari impone che sia una guerra profondamente diversa, ma in primo luogo esiste sempre la possibilità che una tale guerra sfoci in un’escalation incontrollata, ed in secondo luogo anche una guerra senza una tale escalation può profondamente segnare il destino ed il futuro dei perdenti, anche in mancanza di una resa senza condizioni. L’Italia offrendosi come potenziale catalizzatrice di un evento del genere avrebbe molto da perdere e poco da guadagnare. Potrebbe anche attirarsi il risentimento delle potenze alleate che fossero eventualmente costrette ad intervenire indirettamente o peggio direttamente per salvarla da eventuali difficoltà in questa sua pericolosa avventura est mediterranea. In caso di ambasce militari italiane potrebbe anche verificarsi il caso in cui gli alleati non intervengano affatto e lascino bollire l’Italia nel so brodo. La triplice non prevede il supporto militare a chi inizia delle ostilità, e non vi è dubbio che le ostilità in Egitto le ha iniziate l’Italia. In un caso del genere, se l’Italia fosse forzata a qualunque pace di compromesso in condizioni equivalenti o peggiori di quando ha iniziato le ostilità, ciò rappresenterebbe una minaccia esistenziale se non altro per il regime. A questo punto una serie di scenari tutti imponderabili e nessuno piacevole si aprirebbero per l’Italia e non solo.
A un tiro di schioppo dai ricoveri in caverna (Les Grottes) della Base Sous-Marine di Bordeaux situata nel sobborgo di Bacalan, c’è un magnifico ristorante/locale notturno chiamato IBOAT, molto frequentato dagli ufficiali dei sottomarini ospiti della base. Parliamo di uno di quei locali in grado di offrire il massimo del servizio in materia di ospitalità transalpina. Tali ospiti della base erano occasionalmente battelli francesi, tedeschi o anche austroungarici, che usavano la base per visite di cortesia, addestramento congiunto ed alle volte anche per manutenzione. Ma la Base Sous-Marine Bordeaux non aveva solo visitatori occasionali. Essa era anche il covo stabile della 12a divisione sottomarini d’assalto della Regia Marina Italiana e gli ufficiali di quei sottomarini all’IBOAT erano clienti fissi; coccolati oltremisura ed ormai di casa dopo quasi 20 anni di permanenza della divisione in uno dei due nidi francesi per sub che davano sull’Atlantico. L’altra base permanente per sottomarini era La Rochelle usata però esclusivamente dai battelli della flotta francese. Esisteva poi il porto militare di Brest che aveva anche una base per sottomarini ma questa era usata solo in emergenza. Il Contrammiraglio Marcello Zenker stava cenando all’IBOAT quando un ufficiale entrò all’improvviso nel locale per portargli un dispaccio appena ricevuto dallo stato maggiore della divisione e proveniente da Supermarina. Il Giovane guardiamarina consegno il dispaccio con il protocollo, discrezione e compitezza dovuta al comandante in capo della divisione, sebbene sospettasse che si dovesse trattare di qualcosa di veramente importante, vista la reazione degli ufficiali dello stato maggiore della divisione quando lo avevano ricevuto e decifrato. A 35 anni Zenker era il più giovane ufficiale generale non solo della Marina ma di tutte le forze armate italiane. Scapolo d’oro, carriera da paura, rispettato ufficiale di sottomarini in ambito Triplice dove la tradizione subacquea era tra le più forti al mondo, aveva lasciato da quattro anni il comando del Littorio al suo ex secondo ufficiale Capitano di Fregata Giacinto Lucci, ed era stato nominato comandante in capo della divisione. La 12a divisione sottomarini d’assalto rappresentava la longa mano italiana che permetteva al paese di dire la sua sulle vicende dell’Oceano Atlantico e quindi su qualunque dinamica strategica, politica ed economica tra il vecchio ed il nuovo continente. La divisione proiettava l’influenza italiana lungo tutte le sponde americane centrali e meridionali ed antartiche. Avversario fino a quel momento con cui la divisione si era confrontata: la Marina Statunitense, che l’influenza della Triplice in Atlantico la vedeva come il proverbiale telo rosso per il toro. Zenker sospettò subito che se il suo stato maggiore aveva deciso di disturbarlo mentre cenava, il messaggio doveva riguardare qualcosa di più della rivalità Italo-Americana. Si pulì la bocca frizionandola con il tovagliolo finemente ricamato che completava la dotazione di ogni tavolo dell’IBOAT, si scusò con la giovine damigella d’oltralpe con cui stava cenando, e aprì il sigillo dello stato maggiore della 12a divisione. Naturalmente non si sbagliava; già dalla primissima parola del cifrato capì che il programma serale e notturno con la suddetta giovine damigella erano improvvisamente revocati. SEGRETISSIMO SUPERMARINA A 12a DIVISIONE SAA Consistente convoglio britannico con rifornimenti per l’Egitto in partenza vari porti inglesi. Punto di ritrovo probabile Canale di San Giorgio. Certa presenza portaerei Illustrious, che sicuramente porta rinforzi aerei in teatro e almeno 5 grosse navi carico con forze terrestri non specificate e naviglio ausiliario. Formazione sarà scortata probabilmente intera forza antisom flotta inglese con perno sulle due fregate Type 22. Non esclusa presenza cacciatorpediniere Type 42. SIM e SIS concordano sul fatto che il convoglio farà il periplo dell’Africa per arrivare nel Golfo Persico. ORDINI Approntare immediatamente sottomarini Roma e Littorio per missione di intercettazione detto convoglio britannico in Atlantico. Limite zona operazioni parallelo Costa Nord Spagna. Trovare ed affondare naviglio nemico nel seguente ordine di importanza: Navi da carico, portaerei, navi scorta, navi ausiliarie. CONDIZIONI Codice uno armi libere, SOLO, si ripete SOLO nei confronti naviglio appartenente suddetto convoglio. Particolare attenzione a non colpire traffico neutrale. Identificare bene prima di attaccare. Divieto ASSOLUTO di attaccare eventuali sottomarini lanciamissili balistici senza preventivo ed esplicito ordine di questo comando. Non mettere a repentaglio sicurezza vostri sottomarini. Forze inglesi che dovessero trafilare verranno prese in consegna da divisione di Kismayo (Nave Zeffiro), nel contempo spingete azione a fondo compatibilmente con sicurezza battelli e limite zona operativa. CONSIDERAZIONI Governo Francese ha accettato dividere con noi intelligence satellitare propri apparati in orbita. Ogni aggiornamento su posizione convoglio verrà fornita da codesto comando e voi vi regolerete di conseguenza nelle direttive alle vostre unità. Accusare ricevuta presente messaggio nel più breve tempo possibile ed iniziare immediatamente le operazioni. ANNESSI EXTRA TEATRO Confermata presenza di almeno due se non tre sottomarini d’attacco nemici in Mediterraneo. Di questi, uno (Spartan) è stato con tutta probabilità messo fuori combattimento da nostre forze antisom a sud di Cipro. Non dovrebbero esserci sottomarini britannici nella vostra zona di operazione. Pertanto ogni contatto sottomarino è considerato con regole di ingaggio ristrette; usare armi solo se attaccati o se identificato battello come INEQUIVOCABILMENTE britannico. Zenker non pose tempo in mezzo nel mettere in allarme i suoi comandanti, i quali a loro volta provvidero a raccattare i propri ufficiali in libera uscita sparsi per i vari locali notturni della zona attigua alla base. Le guardie serali dei sottomarini furono messe in stato di massima all’erta per l’imbarco immediato di tutti gli equipaggi. Per cui tutti mollarono fidanzate, amanti ed ogni altro genere di compagnia e si precipitarono a tutta forza verso Les Grottes, all'interno delle quali l'attività era frenetica e dove i due formidabili Littorio e Roma stavano già essendo messi in condizione di muovere nel giro di quattro ore. Al littorio venne smontata nel giro di un’ora una sovrastruttura metallica in torretta che era stata applicata per dei lavori programmati di manutenzione ordinaria, e la nave fu presto pronta a lasciare gli ormeggi. La manutenzione avrebbe aspettato. Si prelevarono i viveri d’emergenza dai depositi, si misero in moto i reattori nucleari, e in un tempo record di tre ore e quaranta circa, i due battelli transitavano per il Pont du Pertuis alla volta del lungo, lunghissimo Canale Garonne che li avrebbe immessi in Atlantico. Cinque ore durava in media l’uscita dal canale. Cinque ore di stressante vigilanza, soprattutto quando l’uscita era notturna, il che avrebbe permesso ai battelli di essere all’imbocco dell’Atlantico all’alba. Per veloci che fossero stati gli Inglesi non potevano già essere molto a sud. Si appropinquava dunque la prima battaglia in Atlantico di quella improvvisa guerra Italo-Inglese, e come tutte le battaglie combattute in Atlantico nella storia, tutti a bordo e presso i comandi pensavano che sarebbe stata decisiva. Il Littorio su cui ferve l'attività per l'uscita in missione.
La Sala delle teleconferenze era stata allestita in tutta fretta quella mattina presso gli uffici di Palazzo Venezia, ed il Duce stava finendo di prepararsi per la il programmato collegamento con il Presidente Francese Barger, ed il Presidente degli Stati Uniti Paul Welling. Il Presidente Americano aveva convinto la sua omologa Sovietica, Segretaria del Polibturo Ludmilla Valentina Rudonova a rimanere fuori da questa conversazione, visti i cattivissimi rapporti che intercorrevano soprattutto tra lei e la Cancelliera Tedesca (poi dicono che se le femmine governassero il mondo non ci sarebbero più guerre); e questa doveva essere una riunione costruttiva, che non poteva sfociare in una serie di insulti e chiusure, per cui Italia e Francia avevano convinto anche la Germania a tenersi fuori per il momento. l Presidente Americano si era a sua volta impegnato personalmente a consultarsi con “La Ludmilla” prima di impegnarsi in alcun modo con le potenze della triplice. Aveva promesso alla Premier Sovietica che si sarebbe recato di persona a Mosca per discutere dei risultati dei colloqui e per decidere insieme lei la risposta della Bilaterale. A queste condizioni la Segretaria del Partito Comunista Sovietico aveva accettato di non far parte della discussione. Lo stuolo di tecnici ed esperti di collegamenti via satellite e lo stuolo di interpreti, erano pronti ad entrare in azione non appena il collegamento con Parigi e Washington DC fosse cominciato. Le immagini via satellite dello Studio Ovale e dell’Ufficio Presidenziale dell’Eliseo apparvero improvvisamente sui grandi monitor davanti alla scrivania del Duce, ed i volti seri e compassati degli interlocutori apparvero insieme ad esse. I convenevoli diplomatici durarono pochissimo, che la questione da discutere era di vitale importanza per tutti. “Ho richiesto questa conferenza, e ringrazio tutti voi per avere accettato, in quanto converrete con me che la situazione in Mediterraneo si è fatta improvvisamente e proditoriamente molto preoccupante” esordì il Presidente degli Stati Uniti. “Mi sono consultato con la Segretaria dell’Unione Sovietica (proprio non riusciva a dire del partito comunista), per giungere alla conclusione che sarebbe opportuno intraprendere qualche passo per cercare di interrompere questa inqualificabile aggressione ad un paese che ha appena conquistato la sua indipendenza.” Il Conte Ciano non fu affatto scosso da quello che a suo modo di vedere e di pensare altro non era che una ennesima manifestazione dell’ipocrisia americana. “Mio Caro Mr. President” rispose in tono mellifluo, “qui non si tratta di una questione di etichetta morale. Si tratta di una questione di sicurezza, e degli interessi strategici vitali del mio paese che io ho l’obbligo istituzionale di difendere. Quindi direi che come prima cosa sarebbe bene inquadrare in maniera appropriata i termini del problema” concluse il Duce, con l’interprete simultaneo che gli arrancava dietro a fatica, ma in maniera efficiente. “E quindi lei questa operazione di guerra come la giustifica?” “Innanzi tutto non devo giustificare nulla. Semmai se può esserle utile posso darle una spiegazione.” Il Duce fece una calcolata pausa sorseggiando da un bicchiere d’acqua. “Per quanto mi riguarda, il Governo di Sua Maestà Britannica può vendere, svendere o regalare tutti i territori che vuole”. Enfatizzò la parola “Territori” facendo capire implicitamente a chi lo ascoltava che cosa pensava dell’Egitto in quanto stato indipendente. “Da questo punto di vista la cosa a noi non interessa: invece ci interessa molto quando la Gran Bretagna o chi per lei comincia a creare vuoti di potere ed incertezze di politica internazionale che si ripercuotono sulla sicurezza e sulla stabilità strategica del mio paese e di riflesso su quella dell’intera alleanza di cui il mio paese si onora di fare parte ed in maniera più indiretta sulla sicurezza globale. In questo caso ci riserviamo il diritto di intervenire in accordo con i nostri interessi.” Altra pausa calcolata. “Circa la strategia che l’Italia dovrebbe adottare nel Mediterraneo, forse vorrebbe illuminarmi lei dicendomi magari cosa farebbe, Signor Presidente, di fronte ad un’incertezza sul futuro del Canale di Panama.” Il Presidente Welling non fu per niente impressionato dal sarcasmo del dittatore italiano. “Le due situazioni non sono per nulla somiglianti Eccellenza. Noi abbiamo degli accordi ben precisi con il Governo Panamense, magari prima di avviare una proditoria azione militare, lei avrebbe potuto fare altrettanto con quello egiziano?! E magari non è nemmeno troppo tardi per fermare questa pericolosissima escalation militare.” “La nostra operazione militare è in corso” fece notare il Conte Ciano al Presidente Americano che forse non era collegato molto bene alla realtà. “Inoltre la Gran Bretagna, la quale aveva appena abbandonato l’Egitto dimostrando un totale disinteresse per la stabilità della regione e per le conseguenze delle sua azioni, ha pensato bene di mandarci un ultimatum, via ambasciatore a Roma, senza nemmeno degnarci di un tentativo di contatto ad alto livello, e di dichiararci la guerra alla scadenza di tale ultimatum, che francamente è stato intimato con modalità non degne del decoro delle relazioni tra pari. E lei dice che non è troppo tardi? Le ricordo che le nostre opposte forze armate si sono già scontrate in teatro. Abbiamo già affondato uno dei loro sottomarini e distrutto un certo numero dei loro aerei. Per quanto mi riguarda, siamo in guerra.” “Sono stato in contatto con il Primo Ministro” rispose serafico il Presidente degli Stati Uniti, Il governo di Sua Maestà è ancora disponibile a revocare lo stato di guerra qualora l’Italia interrompa le operazioni militari, ritiri le sue forze dalla regione e avvii un negoziato, che forse si sarebbe dovuto avviare prima di ricorrere al subitaneo uso della forza.” A questo punto si intromise il Presidente Francese, facendo notare che la Gran Bretagna non era in condizioni di imporre nulla al alcuno. Il Governo Francese sarebbe stato semmai disposto ad appoggiare un arresto delle operazioni sulle posizioni raggiunte ed un avvio dei negoziati a partire da quelle; negoziati che avrebbero dovuto assicurare la libera navigazione attraverso il canale di Suez di qualunque potenza volesse farne uso.” E con questo il Presidente Francese pensava di avere spezzato la sua lancia nei confronti dell’alleato. Ciano non pose obiezioni all’avance francese, quando invece in realtà avrebbe voluto dire a Berger di farsi una manica ci ca*zi suoi, che l’opinione della Francia non interessava a nessuno. Purtroppo però la Francia era fondamentale per il successo non solo dell’operazione Artiglio, ma anche per le operazioni militari contro la Gran Bretagna in generale. Erano infatti le basi militari francesi ad essere assolutamente vitali per le operazioni in Atlantico della Regia Marina, ed erano i satelliti francesi che rifornivano costantemente l’alto comando italiano con l’intelligence necessaria a controbilanciare l’analogo appoggio che sicuramente gli Inglesi avevano da Russi ed Americani. Quindi Ciano non fece alcun commento alla proposta di risoluzione francese. Il Presidente Welling chiese senza mezzi termini se l’Italia avesse pretese territoriali o ambizioni circa il controllo politico dell’Egitto. “Noi abbiamo interesse solamente sulla sicurezza della navigazione attraverso il Canale di Suez e sulla profondità strategica necessaria per controllarlo. Per cui le nostre ambizioni territoriali, come le chiama lei, si limitano al controllo militare, e non politico, di parte della penisola del Sinai, il canale stesso, ed una fascia di 60-90 chilometri sulla sponda ovest. Su questi territori non abbiamo alcun interesse di carattere economico, politico o amministrativo. Ci interessa solo l’istallazione di basi per la difesa. Abbiamo Colonie sparse per mezza Africa Orientale, e non possiamo rinunciare ad un collegamento via mare con queste.” “Ma non avete un collegamento aereo-terrestre attraverso il Sudan?” chiese in maniera pertinente il Presidente degli Stati Uniti. “Non è sufficiente. Abbiamo bisogno di libertà sui mari, come qualunque altra potenza. Non so se ha letto il libro del suo connazionale Alfred Thayler Mahan” E con questo il Conte Ciano aveva anche indirettamente risposto all’avance del Presidente Francese. Ma quello americano trasecolò: “Ma questo è impossibile!” annaspò per qualche secondo in cerca delle parole giuste. “Quello che chiedete è una resa di fatto del Governo Inglese e di quello Egiziano. Su queste basi non ci sarà mai un cessate il fuoco.” affermò Welling, che aveva già parlato preventivamente con il Primo Ministro Britannico. “Mai è una parola grossa Signor Presidente, sono sicuro che l’esito delle operazioni militari determinerà la volontà o meno di voler negoziare.” e con questo il Conte Ciano fece capire che era pronto a prendersi con la forza quello che rivendicava. Il Presidente Francese si dimostrò anche lui sorpreso ma non intervenne. “Quindi se ho ben capito” concluse Welling, “il Governo Italiano non è disposto ad intavolare nessun tipo di trattativa.” “Al contrario” rispose il Duce. Le ho appena esposto il nostro punto di vista circa una trattativa. Se crede lo può riferire al Primo Ministro Britannico e come ho già detto all'ambasciatore britannico, egli può contattarmi quando vuole attraverso canali diretti. Fino a quel momento noi continueremo a difendere i nostri interessi nazionali con ogni mezzo a nostra disposizione.” Un rapporto dettagliato sul vertice che si era tenuto tra Italia Stati Uniti e Francia arrivò immediatamente a Brindisi presso la sezione distaccata di Supercomando che faceva capo al Re, ai capi di stato maggiore delle forze armate, ed al comando dell’operazione Artiglio su Nave San Giuto. Il rapporto compilato dalla segreteria del Duce, era identico per tutti; e tutti ebbero un’opinione molto simile a proposito di esso: il Conte Ciano ci era andato troppo pesante ed i suoi successi militari non erano tali da giustificare tale spregiudicatezza.
A bordo del Lupo, il Capitano di Fregata Luca Norma ricevette via radio ordine diretto da parte dell’Ammiraglio di Divisione Bonzano di abbandonare la sua posizione di picchetto sonar e di portare la sua nave più vicina al S. Giorgio continuando a mantenere in funzione il suo sonar attivo. L’ammiraglio voleva una sorveglianza sottomarina più stretta. “Quanti elicotteri abbiamo ad ovest a cercare quel sottomarino di cui abbiamo perso le tracce ieri?” domandò il capitano al Sottotenente di Vascello Venuti, che tra i suoi compiti aveva quello di tenere aggiornato il comandante sulla situazione tattica. “Tre comandante: il nostro, un SM-30 del S. Giorgio e quello del S. Giusto.” “Il comando di gruppo vuole che ci avviciniamo al S. Giorgio. Evidentemente non si fidano del solo schermo di elicotteri.” “Beh, non l’anno ancora trovato no?” “No” Il comandante afferrò uno dei numerosi microfoni presenti nel CDC. “Plancia; nuova rotta 40 velocità 10. Ci portiamo ad un miglio dal S.Giorgio. Approcciare per 210 gradi” “Si Signore” rispose istantaneamente i comandante in seconda, di guardia in plancia. “rotta 40, 10 nodi.” Mentre tutto ciò avveniva, l’A-212 del Maestrale era sempre impegnato nella caccia allo Spartan, che pareva essere oramai davvero alla frutta. “Rumori di ferraglia, ma non rilascio di aria, ripeto non rilascio di aria. Diriga per 70 Signore, il sottomarino vira a dritta.” “Velocità?” “Mi dia qualche secondo… … … … … approssimativa 7-10 nodi.” “Il bastar*o sta cercando di dirigersi verso la base di Cipro. Dobbiamo affondarlo prima! Prepari il secondo Mk-3 per il lancio” ordinò il comandante al suo operatore di sistemi. “E’ già pronto signore” sentenziò con soddisfazione l’operatore di sistemi del 212.” L’Inglese ferito stava cercando di svignarsela alla chetichella. Poteva solo pregare che la perturbazione provocata dalla detonazione del primo siluro avesse confuso le acque in maniera sufficiente a far perdere il contatto al sonar ad immersione dell’elicottero. Ma il 212 del Maestrale invece lo teneva ancora per un orecchio e si preparava ad assestagli un altro calcio nel deretano. A beneficio dei lettori riveliamo qualche informazione sui danni subiti dal sottomarino di Sua Maestà Spartan che l’elicottero del Maestrale non poteva conoscere: due compartimenti di poppa allagati un principio di incendio già domato dalle efficientissime squadre di controllo danni sonar rimorchiato addio due alberi in torre danneggiati, inclusa l’antenna radar. Velocità ridotta a 15 nodi, ma con cautela perché a 15 nodi con lo scafo in quelle condizioni, lo Spartan sferragliava come uno stabilimento siderurgico. In questa poco invidiabile situazione, il comandante del sottomarino cercava di fare rotta verso le acque territoriali cipriote per salvare se non la carriera, almeno barca e ghirba. “Soluzione di tiro?” chiese impazientemente il comandante dell’elicottero.” “Un attimo di pazienza Tenente...ok rilevamenti confrontati e pronti.” “Allineare e rilasciare siluro.” “Siluro fuori.” declamò un secondo più tardi l’operatore. Il siluro scese in acqua ben direzionato dal suo mini paracadute, e non ci volle molto prima che il sub reagisse alla minaccia mortale. “Ok il bersaglio ha aumentato la velocità, fa un rumoraccio d’inferno.” “Mi dia rilevamenti costanti capo!” incitò il comandante. “Velocità stimata 12 nodi; il siluro passa in modalità emissione continua. 600 metri, 500, metri, 200 metri… … “Il siluro non emette più!” “Cosa?” “Ho perso il siluro...o ha malfunzionato o non funziona più il nostro sonar di bordo.” “Controlli Cristo!” Il comandante era livido per il mancato impatto. Dopo breve verifica, l’operatore poté confermare che il sonar di bordo funzionava. “Il Siluro ha malfunzionato.” “Me*da” era l’ultimo siluro!” L’operatore di sistemi, non sapendo cosa rispondere, non rispose. “Rompa il silenzio radio. Segnaliamo al Maestrale la posizione; che ci mandino il secondo elicottero.” L’operatore di sistemi si fece due conti veloci. “Se può viaggiare a 12 nodi raggiungerà il porto di Limassol ben prima che la cavalleria aerea possa arrivare.” e si preparò ad ignorare le bestemmie del comandante. Pausa imprecatoria... “Va bene. Marchi il punto dell’ultimo lancio e dichiari un sottomarino nemico danneggiato. Non dimentichi di menzionare il malfunzionamento del dannato siluro. Torniamo alla nave. E fu così che come il dado volle, lo Spartan la fece franca.
Il servizio di intercettazione e decrittazione del SIM a partire dal quinto giorno di operazioni sul canale aveva già cominciato a captare appelli di disperazione alla volta della Gran Bretagna da parte del governo egiziano, evidentemente pressato dai comandi militari per ricevere munizioni ed equipaggiamenti per alimentare la difesa del paese. Tali rinforzi erano, come abbiamo visto precedentemente, in arrivo, sarebbe occorso un po’ di tempo e che il convoglio passasse indenne attraverso Atlantico ed Oceano Indiano. Gli Italiani dal canto loro si apprestavano ad organizzare operazioni per contrastare tale mossa. Se tali operazioni avessero avuto successo, l’Egitto sarebbe caduto come una pera matura; sarebbe stato nella stessa condizione in cui si trovarono gli Italo-Francesi durante la Grande Guerra quando ci mancò poco che a causa della penuria di rifornimenti perdessero definitivamente tutta la costa dell’Africa Settentrionale a seguito dello sbarco Americano in Algeria. La guerra contro la Gran Bretagna si stava rivelando come da piani previsioni e simulazioni anteguerra, una questione in gran parte marittima. Entrambi i paesi dovevano usare il mare per alimentare i propri sforzi e le proprie iniziative militari. Per il momento, rinvigorito da queste notizie di crisi riguardanti la tenuta degli Egiziani, il Generale Garofali ordinò di reiterare l’attacco per prendere Port Said, ed ordinava ancora allo squadrone di Mangusta ad attaccare selvaggiamente carri e fanteria egiziana che ancora occupavano la città. Adesso l’attacco beneficiava del supporto aggiunto dei reparti della Brigata di Fanteria Firenze, giunta in rinforzo dal II Corpo d’Armata; quindi, tra l’attacco dei fanti dell’82° Reggimento Napoli, che penetravano nei sobborghi nord ovest della città portuale appoggiati dal fuoco dei Marder del 7° Reggimento Bersaglieri, e la spinta frontale del Reggimento S. Marco della Regia Marina che premeva da nord, la resistenza della fanteria egiziana finalmente si spezzò e solo miracolosamente i carri Centurion, rimasti senza appoggio ed assolutamente inadatti a combattimenti urbani difensivi, riuscirono a ripiegare con perdite lievi. Diciamo miracolosamente in quanto la strada verso sud gli fu tenuta aperta da uno sparuto reparto di fanteria prelevato dal comando dell’armata egiziana, con cuochi scritturali e contabili, che respinsero un attacco portato con troppa fretta dai Lagunari sul fianco sinistro dello schieramento egiziano. Attacco mal congegnato che fallì; però Port Said era adesso saldamente in mani italiane. Occorreva a quel punto non riposarsi sugli allori, in quanto la brigata carri egiziana, o quanto di essa rimaneva, ritirandosi sulla strada parallela al canale andava adesso a premere contro i paracadutisti che avevano il controllo di Ismailia ed in particolare il 185° Reggimento Artiglieria. Garofali, dopo aver dato una veloce occhiata alla mappa aggiornata della situazione, ordinò al Generale Mau, comandante del Corpo d’armata d’Assalto di non dare tregua agli egiziani lungo il canale. Occorreva agire in fretta per compensare la perdita di Suez. Oltre le colonne d’Ercole erano intanto in viaggio rifornimenti e rinforzi terrestri ed aerei per il teatro africano, ed in una Baia di Biscaglia con mare assolutamente calmo navigava il convoglio inglese che li trasportava. Pure Il Littorio navigava da un certo numero di ore alla non disprezzabile velocità di 30 nodi. Lui e l’altro sottomarino nucleare d’assalto della 12a divisione, il Roma, stavano cercando di portarsi il più possibile a ponente per intercettare il mega convoglio britannico che era in transito con l’intento di circumnavigare l’Africa e andare a sbarcare l’enorme massa di rinforzi, rifornimenti e mezzi aerei destinati all’Egitto. Le iniziali informazioni del SIM circa la consistenza del convoglio nemico erano state purtroppo riviste al rialzo. Pareva adesso che esso fosse composto da non meno di 8 tra mega porta container e grandi motonavi, da una portaerei, una rifornitrice/nave da assalto, un cacciatorpediniere antiaereo, due fregate, un caccia mine e, secondo le ultime notizie, era salpato da Plymouth anche il sottomarino da attacco Churchill assegnato all’ultimo momento al convoglio come ulteriore difesa. Nome in codice dell’operazione “Iron Rod” Quella del sottomarino era una pessima notizia, non solo perché aumentava a esponenzialmente le capacità difensive del convoglio, ma anche e soprattutto perché poneva un problema serio in Mediterraneo. Infatti le informazioni raccolte fino a quel momento davano tre sottomarini d’attacco britannici in Mediterraneo, e adesso veniva segnalato che il Churchill era salpato dal Playmouth insieme al convoglio. Quindi o gli Inglesi avevano costruito un quarto sottomarino da attacco a propulsione nucleare senza che nessuno ne sapesse nulla - ipotesi ridicola - o il terzo sottomarino in Mediterraneo non era inglese, il che apriva un intero barile di me*da dai punti di vista strategico tattico e diplomatico. Come che fosse, tutti questi aggiornamenti, insieme a posizione e dati di moto del convoglio furono comunicati ai sottomarini della 12a divisione via allerta a bassa frequenza e radiomessaggio compresso per minimizzare la possibilità di localizzazione delle piattaforme che lo ricevevano. Il Capitano di Fregata Giacinto Lucci, a bordo del Littorio era dunque stato svegliato dal pisolino pomeridiano per esaminare il messaggio giunto dal comando della 12a divisione. Era firmato direttamente dall’Ammiraglio Zenker, suo mentore e protettore, e rivelava come detto consistenza, posizione, rotta e velocità del convoglio Iron Rod al momento del passaggio del satellite di sorveglianza francese. Non erano tanto i dati di moto e la posizione del convoglio a preoccupare il Capitano Lucci, quanto la sua consistenza. Se poi avevano anche un SSN a supporto le cose si complicavano ancora di più. Se le informazioni erano corrette, pensò il capitano strofinandosi il mento mentre rileggeva il cifrato, era chiaro che gli Inglesi non avevano lesinato gli sforzi per dare a quel convoglio il massimo delle chance di passare attraverso la tagliola delle 12a divisione sottomarini prima, e attraverso quella in Oceano Indiano rappresentata dalle forze basata a Kismayo poi. Sempre secondo le informazioni, il convoglio navigava alla modesta velocità di 12 nodi con rotta 180, proprio a ponente dell’ultimo meridiano della Penisola Iberica. Quindi gli Inglesi non si erano inventati nulla di trascendentale per sfuggire all’intercettazione della 12a divisione. Lo sapevano che i Francesi passavano la ricognizione satellitare agli Italiani e quindi avevano adottato la tattica di scendere in Atlantico a botta dritta, sfidando questi ultimi ad attaccare. Tipico atteggiamento da marina superiore. E la Royal Navy era infatti localmente superiore. Lucci sapeva anche che il gemello del Littorio, il Roma, si trovava più o meno 150 miglia a nord della sua posizione, quindi già su di un parallelo congiungentesi con il convoglio. Avrebbe dovuto forzare leggermente l’andatura per portarsi a distanza d’attacco in una posizione ancora favorevole, oppure lasciare scorrere il convoglio da dritta a sinistra per poi inseguire. Il Littorio per contro era ben a sud della posizione delle navi inglesi ed avrebbe potuto manovrare con più libertà e calma. Tutti gli ordini dell’Ammiraglio Zenker rimanevano operativi nonostante le recenti novità e quindi massima attenzione al traffico neutrale, e divieto di mettere a repentaglio più dello stretto necessario la sicurezza del sottomarino. Il Capitano Lucci, ficcatosi in tasca il messaggio, si recò in sala controllo ad osservare l’operato del suo team di manovra e per dare la lieta novella che la guerra cominciava sul serio all’intero equipaggio. Tutti, compreso lui erano alla loro prima esperienza di combattimento ed erano comprensibilmente nervosi ed eccitati. Lucci doveva quindi infondere l’esempio ai suoi e dare l’immagine del comandante di un sottomarino nucleare d’attacco, valeva a dire quanto più vicino ci fosse al Dio Nettuno in persona. Per il momento l’unico contatto sonar che il Littorio aveva era uno yacht da diporto lanciato a più di 30 nodi che ferme restando rotte e velocità, gli avrebbe tagliato la prua in circa 3 ore alla distanza di circa una cinquantina di miglia. Niente di cui preoccuparsi quindi. Peccato che sarebbe passato fuori dal raggio visivo del periscopio. Alle volte dalle imbarcazioni da diporto in mare aperto, provenivano immagini assai interessanti da registrare e far rivedere con calma ai turni di guardia smontanti. Il piano di Lucci era semplice e classico: portarsi di prua al convoglio e poi aspettarlo in religioso silenzio, cercando di penetrare nello schermo difensivo e fare una strage di navi mercantili per poi filarsela infine alla chetichella. Ma tra i piani semplici e classici e la realtà c’erano di mezzo il mare ed il nemico. Il Littorio portava 12 siluri Whitehead Mk-5 e otto missili antinave Junio Valerio Borghese per eventuali attacchi contro costa, che tuttavia in quella missione non sarebbero serviti. Quattro Whitehead venivano invece caricati nei tubi di lancio. Lucci si fece dunque un po’ di calcoli mentali sulla base delle informazioni che aveva ricevuto, poi andò alla carta della situazione tattica dove tali dati erano stati riportati in forma grafica, per aiutarsi nella decisione di come procedere. Lui e soltanto lui rappresentava il cervello pensante della macchina da guerra chiamata Nave Littorio. A differenza di un computer, lui prendeva in considerazione i suggerimenti che i suoi ufficiali di volta in volta potevano dargli. Ma alla fine era lui che decideva tutto circa l’attività operativa del sottomarino. Dopo qualche minuto passato sulla carta tattica in sala di manovra, il comandante si rialzò e si rivolse all’ufficiale di rotta. “Mantenere velocità, rotta 250. Com’è lo strato?” “190 metri signor comandante” “Bene quota 200 alla via così” “Quota 200 alla via così” ripeté l’ufficiale di rotta ai timonieri di direzione e profondità. Per il momento occorreva localizzare il convoglio e capirne la formazione. Solo dopo Lucci avrebbe deciso per una tattica d’attacco specifica. Qui ce la si vedeva con una delle migliori marine del mondo, che la guerra antisommergibile l’aveva inventata. Lucci era ben conscio che avrebbe dovuto essere allo stesso tempo scaltro per portare a casa qualche risultato e prudente per portare a casa la pelle. In un remoto angolino del suo cervello però, l’opportunità di scontrarsi con la mitica Royal Navy lo intrigava. L’ultima grande marina a sfidare gli Inglesi era stata la US Navy, altro totem della marineria mondiale. Era finita con una leggera vittoria degli Inglesi, anche se la possente economia americana aveva permesso un buon grado di ricostruzione della Marina USA, mentre quella inglese, dalle mazzate non si era mai ripresa ed era a quel punto solo un simulacro di quello che era stata nella prima metà del secolo. La professionalità, le tradizioni e l’abilità dei Britanni per mare erano però intatte, e con quelle si sarebbero dovuti fare i conti a prescindere. La navigazione del Littorio durò ancora qualche oretta a velocità sostenuta. Il battello dirigeva verso sud ovest con l’idea di rallentare una volta giunto ad una posizione dalla quale avrebbe dovuto trovarsi in prossimità del convoglio, sia per ascoltare con il sonar passivo che per silenziare il sottomarino. Il comandante era impegnato a tracciare i rilevamenti della posizione stimata del convoglio inglese, quando fu brutalmente interrotto dalla sala sonar. Come sempre avviene ed è sempre avvenuto in guerra, molte ore di noia vennero improvvisamente soppiantate da istanti di puro terrore: “Siluro in acqua!!, rilevamento 52 gradi, distanza approssimativa 20 miglia.” Il cervello di Lucci automaticamente mise le macchine a pieno regime. 20 miglia, da dietro; quindi non un elicottero, non un aereo, non risultava che le navi britanniche avessero siluri pesanti: era un sottomarino; un maledetto sottomarino britannico l’aveva trovato, classificato e gli aveva sparato contro. Si pentì amaramente di non aver ridotto la velocità prima. Tutto ciò attraversò la mente di Lucci in sei decimi di secondo, lunghi abbastanza perché Lucci si accorgesse anche che tutte le facce non immediatamente impegnate a sorvegliare una funzione vitale del sottomarino erano fisse su di lui. Sei decimi di secondo passati i quali scattarono gli automatismi. “Barra tutta a dritta! Capo ci porti giù; trecento metri espellere contromisure sonore. Diminuire velocità a 15 nodi, voglio rilevamenti precisi sul siluro.” Sotto la sferza degli ordini del comandante anche per l'equipaggio della camera di manovra il tempo ricominciò a scorrere a velocità normale. “Si Signore” l’ufficiale di rotta si sforzò di rimanere calmo e professionale. “Trecento metri 15 nodi, vira tutto a dritta.” Passarono alcuni minuti durante i quali le manovre del Littorio ed il generatore di rumori oscurarono temporaneamente il sonar rimorchiato. Quando questo fu riallineato e ricominciò a fornire informazioni, le notizie non erano buone, ed il frullio delle eliche del siluro era chiaramente udibile nelle cuffie dell'operatore sonar, in avvicinamento. “Il siluro è ancora vivo; accorcia le distanze comandante! Ha superato le contromisure ed è sempre su di noi. Ha attivato il sonar attivo!” Ancora l’ufficiale di rotta riuscì a rimanere calmo. Mer*a pensò Lucci, ma solo per una frazione di secondo prima di sparare la successiva stringa di ordini. Anni di addestramento entravano perentoriamente ed automaticamente in azione. “Invertire la barra, timoni a salita massima, avanti tutta.” “Si Signore, inverti barra, avanti tutta, risalita di emergenza!” Il Littorio, all'interno del quale tutti si tenevano a qualunque cosa fosse fissato in qualche modo, per evitare di andare a gambe per aria e farsi davvero male, cominciava ad essere a corto di argomenti. Il sottomarino gemeva e scricchiolava sotto la pressione che rapidamente diminuiva e la forza bruta vera e propria della manovra evasiva; i tipici rumori premorte di un sottomarino in manovra di scampo che gli operatori sonar nemici dovevano star ascoltando con il massimo della libidine e doppia libidine, come diceva un comico italiano dell'epoca; ma la virata stretta più il cambio di quota estremo creò una perturbazione sufficiente a confondere il sonar attivo del siluro britannico che passò quaranta metri buoni a dritta del sottomarino italiano e proseguì la sua corsa innocuo verso il nulla. I suoi tentativi di attivare una spirale di ricerca fallirono e cominciò a zigzagare nell’originaria direzione di moto. L’equipaggio del Littorio ricominciò quindi lentamente a respirare. La sensazione di essere stati vicinissimi a ferite, mutilazioni, ustioni e probabile morte per schiacciamento o per una o più delle cause precedenti, richiamò tutto il personale ad una nuova realtà, una realtà ben diversa da quella delle esercitazioni e delle note di encomio o di demerito. Improvvisamente le punizioni amministrate agli equipaggi che non performavano come ci si aspettava, parevano delle ricompense al confronto di quello che avrebbe potuto succedere se il comandante e l’equipaggio avessero fallito in quell’occasione. Il Comandante Lucci afferrò un microfono. “Sonar; comandante. Cos’era?” L’operatore non ebbe esitazioni “Tigerfish comandante.” Bene. Non c’erano più dubbi quindi. Il convoglio inglese aveva un sottomarino a fargli da cane da pastore, ed il primo lupo che questi aveva beccato era proprio lui. Ora prima di occuparsi del convoglio, Lucci avrebbe dovuto scrollarsi di dosso il cane. Ringraziò Dio per la conclamata scarsezza del Tigerfish, presunta dal SIM e da molti altri servizi militari prima della guerra e confermata a quel punto anche in un’operazione reale, e si apprestò a dare i successivi ordini. Avrebbe potuto lanciare un siluro sul rilevamento da cui era provenuta l’offesa, ma fino a quel momento aveva avuto altro da fare e per di più l’allineamento del Littorio non era ideale per un lancio. A quel punto era troppo tardi in quanto l’Inglese si era probabilmente spostato di un bel po’ rispetto alla sua posizione iniziale. No: avrebbe dovuto localizzare il nemico e tirargli contro, ad avrebbe dovuto anche stare molto attento: la stime degli spioni militari potevano anche aver avuto ragione sulla scarsezza del sistema di guida del Tigerfish, ma quanto era successo confermava le ben diverse stime anteguerra, anche queste evidentemente confermate, circa l’incredibile efficienza delle apparecchiature sonar montate sui Trafalgar e circa la stramaledetta abilità dei loro comandanti.
“Barra a dritta, avanti mezza, portiamoci su rotta 60. Il convoglio deve essere nei paraggi.” Ordinò il comandante Lucci, “Saliamo a 80 metri” aggiunse sperando di mantenere il termoclino tra sé è il sottomarino inglese che lo inseguiva. La concentrazione dell’equipaggio e del comandante erano massime. C’era un sub nemico là fuori che avrebbe distrutto il Littorio al minimo errore e magari anche senza nessun errore. Quindi quando il comandante ordinò barra a dritta e mezza potenza alle macchine, gli ufficiali in camera di manovra mossero impercettibilmente la testa. Voleva dire non allontanarsi dalla presunta minaccia e dargli magari un’opportunità per lanciare di nuovo. Il comandante invece contava di avvicinarsi all’approssimativa posizione del convoglio e nel contempo di sfuggire al Trafalgar che presumibilmente lo stava ancora tallonando, facendo quello che l’Inglese non si aspettava. Manovra caz*uta ma anche rischiosa. “Sonar; comandante. Novità?” “Negativo comandante. Una gran quantità di nulla.” rispose con rassegnazione l’operatore. Il Littorio continuò su quella rotta per mezz’ora senza che nulla avvenisse. Sinceramente l’equipaggio si aspettava in qualsiasi momento l’allarme di un secondo siluro in acqua, o magari l’Inglese questa volta ne avrebbe lanciati due o tre per essere sicuro di accopparli compensando alle manchevolezze tecniche del Tigerfish. Ma non accadde nulla, fino a quando l’operatore al sonar non intervenne di nuovo. “Comandante; sonar. Eliche multiple rilevamento da 360 a 60 gradi. Rumorose, conteggio pale 12 nodi rotta 180 da rifinire. Distanza una zona di convergenza.” “E’ il convoglio!” Lucci alzò la testa di scatto dalla carta che stava esaminando e batté un pugno nel palmo aperto dell’altra mano, per non batterlo da qualche parte dove avrebbe fatto rumore. “Risalire a 50 metri, avanti un terzo barra a sinistra, rotta 10 gradi alla via così! Sonar mi dia un’analisi del bersaglio.” “Non c’è molto da analizzare comandante, c’è un’intera ferramenta che viene avanti per 180 gradi” “Scorte?” “Non che possa sentire io.” rispose l’operatore sonar. Lucci si portò di nuovo al tavolo tattico, dove una versione della situazione digitale era sempre copiata ed aggiornata a mano da un paio di ufficiali su una normale carta della scala appropriata con un lucido apposto sopra, come ai tempi della Grande Guerra. Avevano isolato la posizione di un bastimento che secondo il sonar passivo risultava essere una porta container gigante della classe Hokemar. “Cristo” Lucci si rivolse all’ufficiale tattico. “Se gli affondiamo questa tinozza, gli anneghiamo mezzo corpo di spedizione ai piumini della regina. Quanta roba porta una di queste bestie” chiese Lucci all’ufficiale. “Almeno 5000 uomini ed il loro equipaggiamento pesante” rispose il Tattico, che in quanto tattico era pure esperto di ogni tipo di imbarcazione di superficie esistente al mondo, e comunque aveva a disposizione tutta la documentazione cartacea e computerizzata necessaria per rinfrescarsi la memoria in caso di bisogno. Nel caso di una nave container della classe Hokemar non ce n’era bisogno. Lucci attese impazientemente che gli il team sonar gli preparasse una soluzione di tiro. “Allagare tubi da 1 a 4” ordinò infine. Era il momento della verità per il Littorio. Anni e anni di addestramento e di montagne di soldi spesi per arrivare a quel punto. Era sul punto di rendere un servizio inestimabile alla patria. Quello per cui la Regia Marina lo aveva addestrato da quando era un inutile moccioso. “Soluzione di tiro calcolata e pronta.” sentenziò l’ufficiale tattico. Lucci guardò per l’ultima volta i suoi ufficiali, sudati nonostante l’aria condizionata mantenesse una temperatura costante nel sottomarino di 20 gradi centigradi. “Confrontare i rilevamenti e...FUORI.” I tubi lanciasiluri del Littorio scoccarono quattro Whitehead MK-5 a lungo raggio, capaci di colpire un bersaglio a 30 miglia di distanza, filoguidati, silenziosi, mortali con la loro testa di guerra da 350 chili. La nave da colpire era gigantesca e Lucci aveva calcolato che quattro siluri le avrebbero spezzato la schiena. Si attese pazientemente dando il tempo ai siluri di compiere la loro corsa. Il Tempo non passava mai. Da un momento all’altro si aspettavano di sentire qualche macchina di nave da guerra che aumentando i giri per venirli a cercare, diventasse udibile o peggio di sentire uno o più siluri in acqua. Ma di nuovo non accadde nulla. Ci vollero 20 minuti ai Whitehead per giungere a destinazione e quando ci arrivarono, due esplosioni furono chiaramente udite dal sonar. Due siluri su quattro avevano colpito il bersaglio, mentre gli altri due erano finiti chissà dove. Ma due erano pur sempre un colpo devastante anche per una nave di quelle dimensioni. Naturalmente Lucci non aveva il tempo né il modo di vedere i risultati del suo attacco. Sapeva solo che il bersaglio era stato quasi sicuramente colpito. “Qualche migliaio di Inglesi all’inferno!” commentò giubilante un sottufficiale tecnico della timoneria. “Giusto così!” aggiunse enfaticamente il sottufficiale. Gli altri stavano per unirsi alle felicitazioni quando Lucci interruppe accigliato. “Un’altra stronz*ta del genere e la faccio mettere agli arresti capo” intervenne secco il comandante. Non gli piaceva che la morte, la mutilazione e l’annegamento di altri marinai venissero festeggiati a bordo della sua nave. L’atmosfera nella camera di manovra si rifece di colpo neutra e professionale. “Barra dritta, scendere a 250 metri avanti tutta, rotta 180.” Ordinò secco il comandante. Di nuovo impercettibile movimento del capo da parte degli ufficiali in plancia. Lucci si prendeva un altro rischio. Voleva scomparire dalla zona al più presto possibile. Il Trafalgar avrebbe dovuto sudare le proverbiali sette camicie per prenderlo anche se fosse stato in posizione per ascoltarlo, cosa che probabilmente era. Ed anche i suoi miserabili Tigerfish avrebbero dovuto sfiatarsi per raggiungerlo. Era venuto il momento di sfruttare la carta di briscola con la quale il Littorio era stato concepito e costruito. I suoi oltre 40 nodi di velocità con il reattore a pieno regime. Certo a quella velocità il Littorio suonava come una discoteca romagnola a fine agosto e c’era quindi da augurarsi che il sottomarino inglese non fosse troppo vicino e che conteggiate le pale del Littorio decidesse di non lanciare. Inoltre Lucci da lì doveva sparire in fretta prima che le scorte gli mandassero sopra i segugi ad ala rotante arma contro la quale la velocità del sottomarino a poco serviva. Gli Inglesi impiegavano elicotteri Sea King per trovare i bersagli ed i piccoli Lynx non muniti di sonar per il lancio dei siluri. Anche I Sea King portavano due siluri Stingray per la caccia ai sottomarini, che la dottrina prevedeva che usassero per finire i bersagli colpiti dai Lynx. Man mano che il Littorio aumentava la velocità, il sonar diventava sempre più inservibile, ma per il momento il comandante voleva solo mettere più distanza possibile tra sé ed il punto di lancio. Avrebbero corso per un po’ fiduciosi che se qualche siluro con il sonar attivo in funzione fosse arrivato alle loro costole, ne avrebbero comunque captato il riverbero. Ma per un lungo tempo alle loro costole non arrivò nulla. “Macchine avanti un terzo, portarsi a quota 90 metri” ordinò Lucci quando ritenne di poter dare un ascoltatina alla situazione. Non ci fu un gran bisogno di ascoltare, perché contatti si superficie o sommersi il sonar del Littorio non ne rilevò, fino a quando all’improvviso l’operatore sonar non intervenne di nuovo perentoriamente. “Sonar attivo in acqua, distanza circa 5000 metri, segnale medio.” “Tipo?” Chiese impazientemente Lucci. “Un attimo di pazienza comandante” rispose il sonar che stava ancora analizzando gli impulsi. “E’ un Sea King” rilevamento assoluto 36 gradi. Gli Inglesi maledetti lo stavano cercando per fagli pagare l’assassinio della porta container. Adesso era tutta una nuova partita. Si trattava di sfuggire all’aeromobile fino a quando questo non avesse esaurito il carburante, la pazienza o tutte e due e poi di scomparire definitivamente dalla scena, per poi approcciare il convoglio da un’altra angolazione e ritentare il colpaccio. “Macchine avanti tutta, rotta 90, riportiamoci sotto lo strato, timoni a scendere 280 metri” ordinò calmo Lucci che aveva giocato quella partita moltissime volte in addestramento contro i 212 e gli SM-30. Non c’era nessuna ragione di credere che gli elicotteri inglesi fossero meglio. “Esplosioni, comandante! Almeno due grosse esplosioni; lontanissime a tre zone di convergenza, rilevamento 12 gradi.” comunicò eccitato l’operatore sonar. Poteva essere di tutto, ma tra le cose che quelle esplosioni potevano rappresentare c’era anche il Roma che poteva aver messo a segno anche lui i suoi siluri contro il convoglio, in un classico attacco a branco di lupi, tattica inaugurata dalla Germania durante la Grande Guerra. La 12a divisione italiana era un branco piuttosto piccolo, ma proporzionato ad un convoglio attuale molto più piccolo di quando i sottomarini si chiamavano ancora sommergibili ed usavano ancora siluri non guidati. Lucci scacciò ogni pensiero. Adesso tutto doveva essere concentrato nello sfuggire alle forze di ritorsione che gli Inglesi gli avevano mandato contro. “Ci ha individuati?” chiese calmo Lucci all’operatore sonar. “Ho perso il contatto. Probabilmente l’Inglese ha ritirato il sonar per andare ad immergerlo da qualche altra parte. Secondo me non ci ha individuati ma ha una buona idea approssimativa di dove siamo. Lucci ringraziò dio e gli ingegneri che avevano studiato ed applicato il rivestimento anecoico al Littorio e poi si mise a pensare a come sfuggire al nemico. Per una volta diamo ai lettori gli "occhi di Dio" per vedere tutta la situazione. I sottomarini italiani non lo sanno ma gli Inglesi stanno cercando disperatamente di salvare le porta container colpite. Secondo me non ce la faranno. I danni da allagamento sono troppo cospicui. Entrambe le navi hanno anche incendi a bordo. Tanto per vostra informazione, il Lancelot ha a bordo la 7a brigata corazzata, e il Lockerbie l'artiglieria della 3a divisione.
“Il sonar attivo si allontana. 9000 metri rilevamento 330.” Annunciò l’operatore sonar. Il Littorio stava giocando una pericolosissima partita contro il Sea King Inglese sulle sue tracce ed il Lynx che sicuramente aveva al guinzaglio. Il sottomarino alternava sprint a tutta per avvicinarsi alle coste spagnole e far allontanare sempre di più gli elicotteri dalle loro navi madre, a rallentamenti per far funzionare il sonar e vedere che progressi aveva fatto il nemico. “Lo sanno che siamo qui. Non ci hanno ancora localizzati con precisione ma lo sanno dove siamo.” commentò Lucci ai suoi ufficiali in camera di manovra. Oramai erano ore che il sottomarino era in azione con tutti gli uomini ai posti di combattimento ed il rischio cominciava ad affacciarsi che qualcuno commettesse un errore per la stanchezza. “Avanti tutta, timoni a scendere, quota 200, barra a mezzanave mantenere 110 gradi di rotta. Facciamo un altro tentativo di seminare il sonar” ordinò Lucci. “Alla via così timoni di profondità per 200, avanti tutta” ripeté l’ufficiale di guardia. Gli elicotteri erano intorno al sottomarino e cercavano di triangolarne la posizione attraverso successive immersioni del sonar in posizioni diverse. Non arano ancora abbastanza vicini per un lancio utile. Molte miglia più a nord la tragedia delle due navi porta container si stava consumando in tutta la sua drammaticità, nonostante gli sforzi sovrumani delle squadre di controllo danni della Royal Navy imbarcate sui trasporti feriti dal Littorio e dal Roma. Il Lancelot che era la nave messa peggio, immobilizzata sul mare per fortuna calmo, era fortemente appruato e con incendi a bordo; stava per ricevere aiuto dalla nave appoggio Fearless, la cui intenzione era primo quella di trasbordare il più elevato numero possibile di personale della 7a brigata corazzata in maniera da trarlo in salvo e riportarlo possibilmente in Inghilterra e secondo di trasferire a bordo del Lancelot le sue squadre di emergenza per vedere di salvare la nave e il più possibile di mezzi pesanti della brigata. Per quanto riguardava il Lockerbie aveva meno danni a bordo ma aveva imbarcato ancora più acqua del Lancelot ed era in immediato pericolo di affondamento con a bordo due battaglioni di artiglieria pesante della 3a divisione. Per pura fortuna degli Inglesi si trovava a passare sul posto un grosso cargo sloveno che immediatamente si fermò a prestare soccorso al Lockerbie incominciando a trasbordare il più possibile di personale da una nave all’altra mentre le squadre della Royal Navy tentavano ancora l’impresa disperata di salvare la nave ed il suo carico. Dall’Inghilterra partivano intanto la nave ospedale Defender e due rimorchiatori pesanti d’altura per il caso in cui si fosse riusciti a tenere a galla qualcosa ed a trainarlo a casa in qualche modo. Insomma un casino di primissima grandezza che svelò con grande costernazione del mondo intero i progressi fatti nella precisione e nella letalità delle moderne armi navali. Le perdite potenziali che un sinistro del genere potevano provocare non si erano mai più viste dalla grande guerra ed immediatamente come la notizia degli eventi fecero il giro del mondo e delle opinioni pubbliche, gli Italiani furono immediatamente dipinti come sanguinari, criminali e pirati. Se dal punto di vista legale era in realtà tutto a posto, questo non bastava a consolare il comandante del Littorio né per le perdite di vite umane causate dalla sua nave da guerra, né tanto meno per la situazione precaria nella quale adesso il Littorio si trovava. “Questa volta ci ha beccati di sicuro” sentenziò con rassegnazione l’operatore sonar del Littorio. Il trasduttore del Sea King era calato in mare a meno di duemila metri dal sottomarino. Il segnale era molto forte. La reazione di Lucci fu istantanea. Il Littorio aveva da poco rallentato l’andatura in prossimità dei fondali bassi della costa spagnola all’altezza del porto di Ferrol, nella speranza di far perdere le proprie tracce. Non aveva funzionato. “Barra a sinistra, venire a nuova rotta 70, quota quello che possiamo dato il fondale. “Siluro in acqua!” esclamò l’operatore sonar. “Singolo siluro. Ci ha sicuramente individuati!” Dunque quest’azione non finiva mai e gli Inglesi l’osso non lo mollavano. Il Littorio si trovava adesso in una corsa disperata tra la vita e la morte. “Dannati Bull Dog” pensava fra sé e sé Lucci in un misto di disprezzo ed ammirazione per il nemico. “Barra tutta a sinistra venire a rotta zero zero, fare profondità come il fondale consente. Macchine avanti tutta!” Lucci cominciava a credere che gli Inglesi lo avessero preso in trappola questa volta, ma nulla trasparì dalla sua maschera di concentrazione e determinazione. “Viene dritto su di noi! Nessun pattern di ricerca. Hanno lanciato con una soluzione di tiro totalitaria!” adesso la voce dell’operatore sonar era davvero allarmata. C’era poco tempo e poco spazio per la manovra. “Espellere generatore di rumori, timoni in salita d’emergenza sino a 30 metri, barra a dritta macchine avanti tutta!” A mali estremi, estremi rimedi! Lucci rimaneva impassibile, con espressione vitrea mentre calcolava a mente traiettorie, rotte e velocità. A quel punto tutto o quasi era nelle mani delle macchine. Lo Stingray inglese passò attraverso l’esca rilasciata dal Littorio come se non ci fosse stata neppure. Tutto quello che aveva in quel momento nel suo cervello elettronico adesso era l’enorme segnatura attiva del Littorio dritto di fronte a lui. Non c’era più nulla che Lucci potesse fare se non pregare che il turbine d’acqua generato dalle 5000 tonnellate del sottomarino che saltava in assetto molto pronunciato, avrebbero confuso il sistema di guida del siluro. “Impatto tutte le stazioni prepararsi a Impatto imminente!!” urlò Lucci nell’interfono della sala di manovra e poi afferrò la prima cosa solida che gli capitò a tiro. Il siluro colpì il sottomarino a mezza nave, provocando uno squarcio di un paio di metri nello scafo resistente. Frammenti incandescenti penetrarono nella zona del deposito dei missili da crociera. Non molti ma quando bastava per appiccare un incendio di discrete dimensioni. In più il sottomarino natralmente imbarcava acqua dallo squarcio. Il pericolo più grande però era il fuoco, che si mangiava la nave e l’ossigeno a bordo, senza contare il pericolo di esplosione. “Squadre d’emergenza, rapporto danni, su il periscopio.” Lucci voleva vedere con chi aveva a che fare. A questo punto gli Inglesi sapevano precisamente dov’era, quindi al diavolo la cautela. “Incendio nel deposito dei Borrghese, compartimento 4M allagato; danni alla struttura dello scafo resistente a mezza nave. “Squadre di emergenza concentrarsi sull’incendio” ordinò Lucci perentoriamente. Il resto poteva aspettare. “Tenetemi informato e prepararsi all’emersione d’emergenza in ogni momento.” Lucci aveva ancora la segreta speranza di sfuggire alla caccia e di tappare i buchi più evidenti. Nel caso peggiore aveva la possibilità di arenare il sottomarino in basso fondale, salvare gli uomini e detonare la piccola carica nucleare che ogni nave della Regia Marina portava a bordo per l’autodistruzione in bassi fondali. L’alternativa era guadagnare il mare aperto, ed autoaffondare il Littorio in acque profonde, dopo averlo fatto saltare con le cariche convenzionali. Nessuna di queste scelte era allettante. Le autorità spagnole non avrebbero mai perdonato all’Italia la detonazione di una carica atomica, per quanto piccola nelle loro acque territoriali. Messo fuori il periscopio, Lucci poté vedere il Sea King a meno di mille metri con rilevamento 320 gradi che si dirigeva dritto su di lui. Più lontano il Lynx, accorreva anche lui come un avvoltoio. Lucci chiuse il periscopio che si abbassò automaticamente nella sua sede. “Sala Macchine; Comandante. Che velocità possiamo tenere?” Al momento comandante viaggiamo a 36 nodi con il reattore a pieno regime. Lo scafo riverbera come una falegnameria.” “Non è più importante adesso. Mantenere quota” Lucci si rivolse all’ufficiale di manovra. Voleva emergere al più presto in caso di malaparata. Intanto aveva preso la decisione di andare al largo. “Rotta zero zero, andiamo via dalla costa. Se necessario autoaffonderemo il sottomarino e ci arrenderemo agli Inglesi in alto mare. “L’ufficiale di rotta accolse con preoccupazione questa decisione del comandante. La nave Inglese più vicina stava probabilmente ad almeno a 75 miglia di distanza e ce ne sarebbe voluto di tempo per l’arrivo dei soccorsi; sempre che gli Inglesi li avessero soccorsi, il che era tutto meno che scontato. “Controllo Danni, Comandante. Spegnetemi quel dannato incendio!!” L’invocazione stava a metà tra un’ordine ed una supplica. Comandante, qui controllo danni ci stiamo provando, ma se penetra all’interno del deposito missili, addio patria. “Spegnetemelo per Dio!” ordinò Lucci. A nord, dopo essere riusciti a salvare solamente il personale di quasi un intero battaglione di lanciarazzi della 3a divisione, Il Lockerbie si capovolgeva e affondava rapidamente portando con sé il resto del suo povero carico umano che non si era fatto in tempo a trasbordare. Si salvava più o meno il 40% dell’equipaggio che veniva tratto in salvo dal cargo sloveno e da altre imbarcazioni che si erano portate sul posto una volta captato il segnale di stress. Sul Lancelot, si lottava ancora tra la vita e la morte per salvare quanto più possibile del personale. I mezzi, se non si salvava in qualche modo la nave erano tutti perduti. Ammesso che la nave non fosse affondata, le sue macchine erano distrutte ed avrebbe dovuto essere rimorchiata indietro verso le basi della flotta inglese in Madrepatria. La base di Gibilterra era a quel punto dove si trovava il Lancelot equivalente come distanza, quindi tanto valeva provare a tornare indietro.
Molte delle cose che dall’alto non si vedevano, le notai quando rullando a terra lungo la bretella di raccordo con la pista potei guardarmi intorno con più calma; a Partire dai lanciatori di missili spada ben mimetizzati nei punti strategici per la difesa della base e a finire con l’impeccabile organizzazione della squadriglia di supporto aeromobili che accolse me e gli altri aerei in atterraggio alla base di Damietta. Lo specialista di terra che guidava il mio velivolo, fece un impeccabile saluto militare - quello fascista lo avevamo lasciato per legge alla milizia per la sicurezza nazionale ed alla polizia politica - e mi indirizzò verso un’area separata di dispersione degli aerei. Capii subito l’antifona e mi preparai alla seccatura. Arrivato alla piazzola dove avrei dovuto parcheggiare l’aeroplano, vidi riuniti un picchetto d’onore della 3a squadriglia difesa aeroporti, il capitano comandante della batteria di Spada di stanza nella base con una sezione di rappresentanza degli artiglieri antiaerei, un picchetto del nucleo radar che si era fatto una ventina di chilometri apposta per presenziare al mio arrivo, il comandante dell’aerobrigata aerea Generale di Divisione Aerea Taddeo Lucani in persona e persino la banda del 12° Gruppo difesa missilistica che inquadrava la squadriglia di Spada di cui ho già detto. Lascio immaginare quanto fossi pronto e disposto ad una tale accoglienza dopo il lungo volo di trasferimento da Brindisi con rifornimento in volo sulla Libia per tenerci il più possibile ad ovest dalle basi inglesi in Cipro ed in Palestina. Fu applicata la scaletta al mio aereo e dovetti rovinare la festa di tutti chiedendo dov’era il bagno più vicino, ma grazie a Dio tutto il personale presente era dell’aeronautica e quindi tutti compresero. Espletati i naturali e poco regali compiti, sudato e accaldato mi riportai sulla linea volo per rendere gli onori al picchetto militare ed alla bandiera. Il mio posto comando tattico si trovava in uno degli hangar shelterizzati che non erano proprio shelter, ma hangar protetti. Terminate le cerimonie, mi incamminai insieme al Maggiore Filzi, vicecomandante del Nono e mio buon amico sin dai tempi dell’Accademia. “Adesso che abbiamo omaggiato la patria, possiamo dare inizio alla pianificazione per menare le mani” mi disse Filzi, a cui della patria e della bandiera non era mai fregato nulla. A lui piaceva volare con un certo tipo di aeroplano e per lui la patria era la sua squadriglia, o nei giorni in cui si sentiva particolarmente generoso, il suo gruppo di volo che peraltro avrebbe dovuto comandare lui se io fossi stato accoppato. Gli risposi di smetterla di fare il duro per nascondere la fifa perché tanto la fifa ce l'avevamo tutti e non c'era bisogno di nasconderla. Sorrisino beffardo e nascosto, testa bassa e continuammo verso l'hangar comando. All’interno del IX Gruppo, per tutto il personale avevo già dall’inizio abolito tutti i formalismi ed i bizantinismi regali. Ero Semplicemente il Tenente Colonnello Savoia Aosta e poteva bastare. Per Filzi che era mio amico da quando eravamo imberbi pinguini ero Joker e su queste basi avevamo impostato un ottimo modo di lavorare che mi rendevo conto doveva superare una serie di problematiche legate alla mia presenza in comando. I disguidi più rilevanti si presentavano con gli ufficiali superiori, in quanto io ero un loro subordinato ed allo stesso tempo comandante supremo di tutte le forze armate. Una evidente distorsione della catena di comando, ma non tanto perversa quanto quella che era esistita durante la grande guerra sotto Mussolini, dove i comandanti di forza armata erano pure sottosegretari suoi con la serie interminabile di problemi ne derivarono. Per quanto riguardava la mia catena di comando, non era difficile. In sede di stato maggiore, in quanto primo militare d'Italia mi consultavo con gli organi politici e militari ma la decisione finale era la mia. Su quelle direttive gli stati maggiori si conformavano ed emettevano i propri ordini. Essi potevano anche agire di iniziativa qualora la situazione lo richiedesse, con l'obbligo di informarmi il prima possibile. Gli ordini emanati andavano come è naturale giù per la catena di comando, fino ad arrivare al il IX Gruppo Caccia Intercettori della Regia Aeronautica. Quando ciò avveniva, in quanto comandante di gruppo, li eseguivo conformandomi all'intento espresso dal mio diretto superiore, nel caso in esame il Generale Lucani, andando a comandare materialmente le missioni con le mie squadriglie come ogni altro comandante di Gruppo. Tutti costoro avevano il proprio stile personale di comando. C'era chi si piazzava come rincalzo perenne per gli aerei che non riuscivano a cominciare la missione per qualche motivo, c'era chi dosava con parsimonia le proprie sortite e massimizzava l'aspetto tecnico e di pianificazione e poi c'erano quelli che di missione non se perdevano una. Il mio stile era del terzo tipo. Questo naturalmente non piaceva a nessuno; né a tutto l'establishment politico e militare, che temeva che avessi un incidente, e né tantomeno ai miei comandanti di squadriglia ai quali mi sostituivo quando la sortita prevedeva un numero limitato degli aerei del gruppo. Precedenti in cui personale con responsabilità di comando svolgeva anche attività di volo nonostante il grado elevato non erano mancati nella Regia: durante la Grande Guerra, il Generale Ferdinando Raffaelli, che comandava una mezza squadra aerea (Aerobrigata) andava normalmente in volo ed in combattimento con il suo Macchi inquadrato nel 153° Gruppo Caccia, per cui tutti quelli che mi volevano a terra a Roma a comandare la baracca dal Quirinale avevano da smettere si rompere le scatole. Il posto di comando tattico allestito per me dal personale della 3a Squadriglia Difesa era una buona copia di quello di Brindisi, con tutte le comunicazioni a posto; con il Conte Ciano, con i ministri del Gabinetto di Guerra che era in via di formazione, e con i capi di stato maggiore delle forze armate. Con me avevo tre ottimi ufficiali di stato Maggiore, I generali di divisione Margellini per l’Esercito, Tassoni per l’Aeronautica e l’Ammiraglio da Verrazzano per la Marina. Questi mi aspettavano con una notizia esplosiva era proprio il caso di dire: battuta dalle principali agenzie di stampa del mondo, la notizia era che una selvaggia battaglia navale c'era stata o era ancora in corso in Atlantico e che c’erano state perdite che dovevano essere state rilevanti dal momento che non si era potuta nascondere la partenza di una grossa nave ospedale e di una serie di potenti rimorchiatori d’altura dalle isole britanniche. Non si era a conoscenza di nessun dettaglio, perché dagli ambienti della difesa britannica non trapelava nulla, e da quelle italiane nemmeno. Da quelle italiane non trapelava nulla perché ancora non sapevano nulla. “Ci sono notizie da parte dei nostri sottomarini?” chiesi a tal proposito con impazienza all’Ammiraglio da Verrazzano. Questi mi rispose con aria mesta che non ce n’erano; il che lasciava presupporre che fossero entrambi impegnati ad eludere la caccia nemica e che, per qualunque altra ragione, ancora non potevano venire a quota di comunicazione per dare notizie sulla loro missione e di loro stessi. L’ammiraglio era preoccupato che i sottomarini fossero stati intercettati ed attaccati e che i rimorchiatori partiti dalle isole britanniche servissero per portarseli in Inghilterra come preda di guerra. “Ammiraglio” risposi pazientemente anche per sollevarne l’animo. “Lei sa bene che nessuno dei nostri marinai lascerebbe mai che una delle nostre navi cadesse in mano al nemico. Tutti sono addestrati alle procedure per evitare un’evenienza del genere. E poi non sappiamo ancora come sono andate le cose. Mi corregga se sbaglio, ma una grande nave ospedale significa un gran sinistro in mare, tipo l’affondamento di una o più grosse navi da carico. Dei superstiti prigionieri di guerra di un nostro sottomarino, si occuperebbero invece direttamente le infermerie delle navi della task force inglese.” Senza fare ulteriori commenti l’Ammiraglio mi rispose che mi avrebbe informato immediatamente in caso di qualunque novità. Riunii quindi i miei due comandanti di squadriglia per cominciare a mettere a punto uno schema operativo per il gruppo in attesa degli ordini dell’aerobrigata, che oramai era attestata nelle due basi di Damietta e Mansoura ed avrebbe presto cominciato ad operare. “Signori” dissi. “Mettiamoci al lavoro.
Allarmato dalla notizia che l’operazione inglese Iron Rod in Atlantico era in corso, anche se il suo esito non era ancora chiaro, Aimone, giunto in teatro volle subito sincerarsi di persona del motivo per il quale le operazioni in Egitto non fossero ancora come minimo ad un punto di svolta. Per cui si affrettò a mandare un cifrato al suo comandante in teatro Generale Garofali a bordo del S. Giusto: Caro Garofali, mi preme renderVi noto che gli Inglesi si stanno muovendo con una certa rapidità per rinforzare il fronte egiziano ed hanno messo in cantiere un’enorme operazione di trasporto navale volta a tale scopo. Una delle loro tipiche operazioni navali complesse. Mi sono consultato con i vari capi di stato maggiore di forza armata ed ho appreso che Suez non è ancora stata conquistata. Mi informa inoltre il Generale Crai che Voi avete messo a terra sino adesso solo due delle sette brigate ai vostri ordini, fatta eccezione per la Garibaldi che partiva da terra, e che mi dicono non sta facendo neanche lei grandi progressi. Senza voler entrare nel merito della Vostra azione di comando viglio esortarvi a sbarazzarvi il prima possibile della resistenza egiziana sul canale e nella zona del confine libico perché gli Inglesi stanno arrivando e stanno arrivando in forze, qualunque cosa accada della Iron Rod. Fateci ovviamente sapere se c’è qualcosa che vi trattiene dal dispiegare completamente la vostra potenza e dal forzare la conclusione della prima fase dell’operazione. Certamente noi abbiamo fatto e faremo di tutto per mettere sulla rotta degli Inglesi il più gran numero di problemi possibili tramite l’azionedella Regia Marina. Converrete con me che il nostro dispositivo militare sul canale e soprattutto nella parte occidentale della penisola del Sinai deve essere approntato al più presto possibile, specialmente in considerazione di quanto il SIM mi ha fatto pervenire nelle ultime 24 ore. Allego a questo cifrato copia del regalo con cui il Servizio Segreto Militare ha voluto omaggiarmi, vale a dire l’ordine di battaglia completo delle forze britanniche imbarcate ed in rotta verso Kuwait City. Fatene buon uso; proviene da una nostra fonte di primo livello infiltrata nel gabinetto di guerra della cara amica di mia madre, la Regina Elisabetta. La nostra fonte ha messo seriamente a rischio la sua copertura per farcelo avere. Eastern Desert Force (EDF) Reaction Force HQ (as overall operational command) 104th Theater Logistic Brigade HQ Company 9th Logistic Regiment 17th Port and Maritime Regiment 1st Aviation Brigade HQ Company 8th Apache Squadroon 20th Chinook Squadroon 7th Air Defence Group HQ Company 12th Regiment Royal Artillery (Rapier) 16th Regiment Royal Artillery (Hawk) 3rd UK Division HQ Battallion 1st Regiment Royal Horse Artillery (SP guns 155) 3rd Regiment Royal Horse Artillety (Rockets) 25th Close Support Engineer Group HQ Company 22nd Engineer Regiment Royal Engineers 26th Engineer Regiment Royal Engineers 21st Engineer Regiment Royal Engineers 4th Mechanized Brigade HQ Company Royal Dragoon Guard (Armored Recce) Queen's Royal Hussars (Armored) 1st Battalion Royal Regiment of Fusiliers (Mechanized) (-) 5th Battalion The Rifles (Mechanized) 1st Battalion The Scots Guards (Mechanized) 3rd Armored Close Support Battalion Royal Mechanical Engineers 7th Armoured Brigade HQ Company The Royal Tank Regiment (Armored) King's Royal Hussars (Armored) 1st Battalion The Royal Welsh (Mechanized) 1st Battalion The Mercian Regiment (Mechanized) 4th Regiment Royal Logistic Corps 22th Light Brigade HQ Company Light Dragoons (Light Recce) 1st Battalion Grenadier Guards (Mechanized) 1st Battalion Coldstream Guards (Mechanized) 2nd Battalion Royal Highland Fusiliers (Ligth Infantry) 2nd Battalion The Rifles (Light Infanty) 103rd Lancashire Artillery volunteers Regiment (Light 105 guns) Royal Air Force 251th Palestine squadron Harrier GR.5 Radar 127th Air Defence Squadroon 612th Tactical Group (Transported on the Illustrious to Middle East) F-4 Phantom II 251th Light Tactical Group (Jerusalem) Harrier Gr. 5 (-) 285th Light Tactical Group (Transported on the Illustrious to Middle East) Harrier Gr. 5 Di ciò preso visione, spero converrete con me che occorre sbrigarsi. Aimone Savoia Aosta. Presa visione della lista, al Generale Garofali venne un misto tra un attacco di dissenteria ed uno sturbo coronarico; e grazie a Dio si trovava da solo nella sua cabina per leggere il messaggio della massima autorità dello stato. C’era solo da augurarsi che il Reuccio riuscisse a mettere abbastanza sale sulla coda ai Britanni lungo il loro tragitto marittimo. In quanto a lui si preparò invece con grossi clisteri a base di pepe, da mettere al cu*o di tutti i suoi subordinati, navali e terrestri.
L’ordine di sbarco per il reggimento arrivò all’improvviso, anche se dopo la cooptazione forzata dei bersaglieri e del Reggimento Torino, non era del tutto inaspettato. Il Sottotenente Gradoli si recò di persona dai suoi comandanti di sezione i cui VM erano già allineati e pronti al trasferimento sulle chiatte da sbarco. “Nessunissima preoccupazione” il tenente rassicurò le sue tre pattuglie esploranti. Vannetti e i suoi erano seduti sul tetto del loro VM, all'interno della capace stiva del Prosepina, per ascoltare le ultime istruzioni del comandante. “La spiaggia antistante l’aeroporto di Port Said è tenuta saldamente dal 7° Bersaglieri. Il nostro compito è quello di prendere terra in corrispondenza dell’aeroporto; Gradoli indicò su una mappa stesa sul cofano di un VM. Guadagnare nel più breve tempo possibile la strada costiera e svoltare a destra dirigendoci a tutta birra verso la città di Damietta. Qui c’è l’obiettivo strategico del reggimento: la base aerea militare. Noi siamo il plotone di testa dello squadrone leggero. Sbarcheremo per primi, svolteremo a destra per primi e saremo l’avanguardia. Dietro di noi il resto dello squadrone leggero e i due squadroni Centauro. Domande?” “E’ prevista resistenza lungo la strada per Damietta?” “Questo è quello che dovremo scoprire noi come avanguardia esplorante, ma la ricognizione strategica, la forza nemica più vicina la dà ad Alessandria. Si tratta della brigata di fanteria di stanza in città che sembra non si sia ancora mossa dall’inizio dell’operazione.” I comandanti delle pattuglie si guardarono tra di loro ma non ci furono altre domande. “Vediamo di farlo bene sto lavoro ragazzi. La base di Damietta, una volta che l’abbiamo presa dovrà essere usata dal gruppo caccia di Sua Maestà che verrà ad operare qui in Egitto.” “Viva il Re!!” Fece uno dei sottufficiali del plotone. “Savoia!!” Gli fecero eco tutti. Mentre tutto ciò accadeva, il Reggimento di Fanteria Torino proseguiva verso sud lungo la strada parallela al canale in compagnia del comando della Brigata Firenze, elitrasportato a mezzo SM-30 della Marina, insieme al rabberciato reggimento guastatori paracadutisti che veniva trasportato ad Ismailia, sede del comando della Brigata Folgore. Lungo la strada il Reggimento Torino incontrava un distaccamento Egiziano posto a blocco dell’arteria e lo respingeva facilmente verso sud. Gli Egiziani ripiegavano sulla brigata corazzata della 1a Armata, accerchiata e con la strada sbarrata verso sud dai reparti di paracadutisti italiani che presidiavano l’accesso nord di Ismailia. Per cercare di scampala, i resti della brigata corazzata, si buttarono lungo l’unica strada ancora accessibile verso ovest tra gli acquitrini del delta. Pessimo terreno per i carri armati Centurion, i quali furono sottoposti ad una serie di micidiali imboscate da parte dei Lagunari che già operava nella zona e da parte del 82° Reggimento di Fanteria Torino, appena giunto sul posto. Pertanto la situazione per gli Egiziani sul canale nei pressi del Lago Amaro si faceva critica. Migliore invece era la situazione a sud, dove a Suez la 45a Brigata egiziana era stata raggiunta da una compagnia del Royal Regiment of Fusiliers inglese. Le altre due compagnie di questo reggimento erano in Palestina e si stavano preparando a muovere alla volta della penisola del Sinai. Tra Suez ed il Cairo c’era ancora la 3a armata egiziana con le sue quattro brigate malconce di fanteria, che però confronto alla leggera Folgore rappresentavano ancora un discreto potenziale di combattimento, se logisticamente ben appoggiate. Ed infatti tra breve i paracadutisti se ne accorgeranno. A Marsa Matruh, il Generale Bardelli si ostinava a voler completare il rifornimento dei suoi reggimenti prima di riprendere il movimento offensivo verso est ed il Generale Garofali ringraziò i santi protettori dell’esercito che tale rifornimento era praticamente completato e che nel turno successivo finalmente la Garibaldi si sarebbe mossa. Gli sarebbe spiaciuto dover fare la voce grossa con il Generale Bardelli, suo diretto subordinato; ricordiamo infatti che la Garibaldi non faceva parte di nessun corpo d’armata. Per quanto riguardava invece il Corpo d’Armata d’Assalto le cose procedevano bene. La Brigata anfibia aveva oramai il controllo di Port Said e dintorni, mentre la Folgore, nonostante la battuta a vuoto a Suez, aveva il saldo controllo di Ismailia. Dal canto suo, il Reggimento della Serenissima con in coda il S.Marco, si preparava a sfruttare il successo fuori dalla testa di sbarco, avventurandosi nel territorio acquitrinoso circostante, con il duplice obiettivo di distruggere quanto rimaneva della brigata corazzata egiziana e ampliare detta testa di sbarco. Leggiamo direttamente dal diario reggimentale: Dovemmo fare un uso sapiente del movimento appiedato e montato per venire a capo del terreno coltivato e paludoso a sud di Port Said. Il Reggimento della marina ci stava alle spalle pronto a sfruttare qualunque nostro successo, mentre i carri egiziani erano del tutto disorientati. Avevano cercato scampo sulla strada che dai sobborghi meridionali di Port Said si snodava tra gli acquitrini verso Mansoura e Damietta. Me era una strada sopraelevata, ideale per organizzarci sopra le imboscate con i missili anticarro con i Milan e con i Blidicide. Alla fine dopo averli presi a di petto con questo mordi e fuggi, ci decidemmo alla fine a sbarrare loro la strada direttamente. Quando si videro in trappola non poterono fare altro che attaccare. Se si mettevano in formazione si impantanavano e rimanevano immobilizzati e se venivano avanti in colonna prendevano il nostro fuoco senza poter controbattere a massa. Alla fine della giornata dei Centurion rimaneva poco e niente, e quel poco, si arrendeva. Gli Equipaggi li rimandammo verso Port Said. E questa era la seconda unità che la 1a armata egiziana perdeva dopo la 1a Brigata di Fanteria. Il reggimento guastatori paracadutisti, con l’aiuto dei mortai pesanti di brigata, si occupò invece del comando dell’armata egiziana, anch’esso rimasto intrappolato sulla strada del canale tra Ismailia e Port Said. I guastatori, appena sbarcati dagli elicotteri ricevettero l’ordine di procedere verso nord, che avrebbero trovato il nemico. Non appena le pattuglie in avanscoperta trovarono gli Egiziani, questi si arresero giacché ben sapevano di non avere scampo. Fu catturato il comandante della 1a armata, con tutto il suo stato maggiore dopo breve resistenza della fanteria egiziana che presidiava il posto di comando tattico dell’alto ufficiale, il cui comando era al momento dell’attacco ancora tutto montato su ruote. I guastatori capirono di avere vittoria completa quando si imbatterono nei posti di blocco dell’82 Reggimento di Fanteria Torino che veniva da nord e ci mancò pure poco che le due unità si sparassero addosso. A sud invece, il 186° ed il 187° Reggimento Paracadutisti, attaccavano a fondo la 5a Brigata di Fanteria egiziana che difendeva ancora i Sobborghi a nordest di Ramadan City e la ricacciava in centro città, ma questa vittoria come vedremo fu di brave durata. Quando si fosse messa in moto la Garibaldi e si fosse riusciti a mettere a terra l’Ariete e la Granatieri di Sardegna, sfruttando il successo sulla penisola del Sinai, la prima parte dell’operazione si sarebbe potuta considerare conclusa. Prima però occorreva riconquistare Suez. Naturalmente la giornata non poteva concludersi senza cattive notizie, ed in questo caso si trattò di un precipitoso ma riuscito contrattacco della 3a armata egiziana. Questo attacco fu parzialmente causato da un certo grado di imperizia del Generale Monti comandante della brigata Folgore: egli aveva lasciato infatti un pericoloso varco tra Suez e Ramadan nell’avanzare verso El Obour city e le brigate della 3a armata, ci si erano subito infilate, cogliendo di sorpresa il 186° sul fianco sinistro e provocando un certo disordine e serie perdite, soprattutto ad opera dei mortai che colsero i paracadutisti in movimento allo scoperto. Il reggimento ripiegava quindi alla periferia nordovest di Ismailia, purtroppo lasciando il fianco sinistro del Nembo scoperto. Pertanto la 104a brigata si infilava in questo pertugio e costringeva anche il 187° a ripiegare. Tutto sommato non una tragedia, ma le perdite del 186° pesavano alquanto. Adesso occorreva fare attenzione al comando di brigata che era rimasto senza appoggio in città in vista dell’avanzata trionfale dei suoi reggimenti, e soprattutto risolvere l’ingorgo stradale lungo il canale per far affluire al più presto i rinforzi e farla finita con gli Egiziani prima che arrivassero gli Inglesi. Uno dei Centurion della brigata corazzata della 1a Armata, nella sua caratteristica livrea dell'Esercito Egiziano, impantanatosi nel difficile terreno del delta del Nilo e messo fuori uso dal Reggimento della Serenissima Repubblica di Venezia. Il suo equipaggio attende di essere rimandato indietro verso Porto Said per partire in prigionia in Italia.
Ad una decina di chilometri dall'obiettivo, la base aerea di Damietta, Vannetti ricevette la chiamata via radio dal Sottotenente Gradoli: nuovi ordini; dietrofront e nuova destinazione nella penisola del Sinai. Il resto della brigata Firenze stava sbarcando a Port Said e filando a tutta birra destinazione proprio la strada costiera di collegamento col Sinai. I nuovi ordini impartiti alla brigata imponevano adesso l’apprestamento di posizioni difensive ad est del canale in attesa del contrattacco inglese atteso dalla Palestina. Il Generale Garofali aveva ordinato al comandante del II Corpo d’Armata, comprendente la Brigate di Fanteria Firenze e Savona di dividere temporaneamente le sue forze: la Firenze sarebbe come abbiamo visto filata nel Sinai del Nord, mentre la Savona avrebbe sostituito la Firenze nell’assalto al versante occidentale del delta del Nilo. Fu così che al mezzodì del sesto giorno di campagna, la Savona prendeva terra a Port Said oramai sgombra da resistenza nemiche e si involava verso occidente per una larghissima manovra aggirante volta all’occupazione di Damietta, Mansoura (l’altra base aerea di capitale importanza per l’operazione) ed in secondo tempo, ma neanche troppo, la discesa sul Cairo con devastazione di tutte le basi logistiche egiziane e colpo di grazia alla resistenza nemica. Obiettivo finale di questa operazione della Savona era quello di piombare su Suez da Ovest, giacché da nord non si era riusciti a mantenerla, alleggerire la gravissima pressione sulla Folgore e distruggere definitivamente la 3a Armata Egiziana. Occorreva naturalmente guardarsi il fianco destro, dalla presumibile e precipitosa ritirata che la 2a Armata Egiziana avrebbe cominciato per non essere tagliata fuori dal resto del paese. Si contava per questo anche e soprattutto sul supporto della Garibaldi avanzante dalla Libia per tenere sotto pressione la già malconcia e mezzo accerchiata armata nemica. Tutto ciò deciso, rimaneva da stabilire il ruolo del Possente Corpo Corazzato che era oramai pronto nei porti di imbarco a Napoli e Taranto per essere prelevato dalla Task Force, una volta che questa, arrivata la Regia Aeronautica in Egitto, avesse potuto far rientro in patria appunto per caricare le rimanenti truppe destinate all’operazione in Egitto. Nello stesso momento si sarebbe dovuto cominciare ad organizzare il traffico convogliato in Libia per il sostentamento dell’armata. La Marina stava già studiando quali porti di arrivo utilizzare. Se fossero state sicure le comunicazioni tra il confine libico ed il Canale, Marsa Matruh poteva essere un ideale porto di destinazione, visto che Port Said era considerato troppo vicino a troppe basi navali britanniche. Occorreva comunque monitorare quali forze aeronavali i britannici avrebbero portato in Mediterraneo nella loro basi di Malta, Haifa, Cipro e Gibilterra e poi regolarsi di conseguenza per la destinazione e la difesa dei convogli. L’obiettivo dell’operazione ed il suo punto di arrivo strategico e politico rimanevano quelli di mettere Inglesi, Americani e Russi di fronte al fatto compiuto ed incontrovertibile che l’Italia avrebbe preso possesso del Canale di Suez tanto per cominciare e dell’Egitto tutto come ulteriore obiettivo coloniale. Da ultimo rimaneva la delicata situazione tattica della Folgore, decisamente la più sfruttata e tartassata delle brigate italiane. Suo compito in quei giorni rimaneva quello di assicurare il possesso di Ismailia con il concorso della brigata da sbarco che stava accorrendo in soccorso da nord. Aveva ancora qualche decisiva battaglia difensiva da combattere però la nostra gloriosa brigata di paracadutisti, e aveva ancora da aggiungere gloria alla gloria guadagnata in Africa Orientale nella Grande Guerra al comando del Duca D’Aosta. Tanto per cominciare la 104a Brigata di Fanteria Egiziana si approssimava, proveniente da Suez, ai sobborghi sud di Ismailia, dove era rimasta in difesa la compagnia di paracadutisti a guardia del comando tattico. Non ci volle una scienza a capire che la compagnia di valorosi non avrebbe potuto trattenere a lungo una brigata, seppur di truppe di scarsa qualità e seppur già indebolita da scontri precedenti. Fu quindi giocoforza per il Generale Monti, comandante della Folgore, impiegare la sua riserva tattica costituita dal 185° Reggimento Guastatori Paracadutisti, il quale accorreva di corsa, armi pesanti in spalla a difendere i margine sud della città. Aveva il generale anche ricevuto notizia che un rabberciato 1° Reggimento Tuscania sarebbe stato inviato di nuovo in teatro insieme con il corpo corazzato e quindi avrebbe potuto disporre della sua brigata di nuovo al completo. Uno dei plotoni del reggimento guastatori, giunto ad occupare le sue posizioni a guardia della strada che portava dall’altra parte del Canale, dovette immediatamente dare un concitato segnale d’allarme quando da est si profilarono inaspettate le sagome di veicoli da combattimento Warrior con tanto di bandierine britanniche sulle antenne. Si trattava della compagnia C del Royal Regiment of Fulisiers, che ere rimasta in Egitto in qualità di reparto di consiglieri militari per le forze armate egiziane. Il reparto si era appena riunito con i suoi veicoli da combattimento e con le sue armi pesanti per venire a combattere la prima battaglia della storia tra Royal Army e Regio Esercito. Il reggimento dei guastatori paracadutisti, incaricato di rafforzare la difesa di Ismailia, schierò quindi due compagnie nel settore sud est del perimetro, mentre la terza rimaneva supporto della compagnia comando di brigata sul versante sud. In riserva, un accidente di nulla; ma si poteva contare sull’appoggio dei mortai pesanti del 185° Reggimento Artiglieria Paracadutista per il fuoco indiretto, ed in caso di emergenza, pure diretto. Gli Egiziani, incuranti del fatto che combattevano in un loro centro abitato cominciarono un fuoco abbastanza serrato con la loro batteria di artiglieria campale appartenente alla104a brigata, al quale visto che gli Egiziani lo autorizzavano, si unì la sezione di mortai semoventi della compagnia meccanizzata del Royal Fusilier Regiment. Alla faccia dei civili egiziani! Quello che il nemico non si aspettava di vedere però erano i Mangusta, che arrivavano come falchi sul terreno dello scontro, benché lo squadrone fosse logorato da giorni e giorni di battaglia e con due elicotteri irrimediabilmente perduti. Lasciamo a questo punto la parola al rapporto post azione del Generale Monti. Avuta la notizia dell’imminente attacco della brigata di fanteria egiziana sul versante sud del settore difensivo, portai avanti il mio comando tattico sulla linea del fronte, piazzando subito a difesa davanti al reparto comando l’appena accorsa compagnia di guastatori del Capitano Bicego. Posizioni difensive naturalmente non avevamo avuto il tempo di apprestarne, ragion per cui mi limitai a disporre l’evacuazione dei civili dagli edifici che intendevamo occupare per la difesa. Fu un lavoraccio al quale adibii la sezione di carabinieri paracadutisti, che nonostante la preoccupazione per la sorte del suo reggimento madre, si dedicò con estrema pazienza, professionalità e tatto a questo compito. C'è da dire che le salve di artiglieria che piovevano sulla zona ci facilitarono di molto il compito di convincere le famiglie a trasferirsi a nord. Nel contempo mi giungeva via radio la comunicazione dal reggimento guastatori a difesa del settore sudest che da quella parte arrivavano veicoli inglesi della forza di una compagnia. Tre di questi rimanevano indietro, mentre gli altri proseguivano il movimento di attacco, appiedando un plotone evidentemente per evitare di invischiare i veicoli in combattimenti urbani contro fanteria leggera. Si trattava di veicoli inglesi Warrior della fanteria di linea della regina. Quindi per la prima volta nella storia d’Italia era giunto il momento di usare le armi contro un reparto britannico, cosa che voglio riportare in questo rapporto in quanto di per sé evento storico. Aggiungo anche che mi sentii lusingato dal fatto che la mia brigata fosse la prima unità militare d’Italia ad accingersi al combattimento contro un reparto inglese. Non sapevamo ancora di che unità si trattasse, ma non importava. Tutti i reggimenti del Royal Army di Sua Maestà Britannica sono unità di lunghissima e solidissima tradizione bellica, e combattere contro elementi di uno di essi sarebbe stato un onore per noi. Se non che non ci fu né gran battaglia e né grande onore per nessuno, giacché il primo storico combattimento tra i due eserciti regi quasi non ebbe luogo; all’arrivo delle prime salve dell’artiglieria Egiziana, alla quale si unirono presto i mortai semoventi inglesi (i tre Warrior che si erano arrestati), ordinai immediatamente di rispondere con le nostre salve da 120mm del 185° Artiglieria che cominciarono presto a cadere nei pressi della fanteria egiziana avanzante. Con il che la brigata egiziana mollò l’osso inaspettatamente presto, e lo stesso fece la compagnia britannica presa di petto invece da una coppia di Mangusta che avevo chiamato per fungere da artiglieria anticarro. Quindi alla fine dei conti questo primo round di battaglia per Ismailia non fu spettacolare, anche se il reggimento guastatori ebbe lievi perdite causate proprio dai mortai inglesi, che pur sparando a caso, avevano indovinato la posizione di un reparto di guastatori in un edificio in prima linea. Davanti alle linee nostre osservammo gli Egiziani recuperare i loro feriti, mentre non risulta che danneggiammo nessun veicolo inglese, la cui compagnia meccanizzata batté velocemente in ritirata all’apparire degli elicotteri nostri. Sarebbe stato per la prossima volta. Un Warrior della C company Royal Fulisiliers Regiment presso la strada sopraelevata adducente a Ismailia da sud. Notare la livrea mimetica generica da deserto non adatta al particolare ambiente tattico di questa parte di Egitto.
Gli Inglesi si erano presi un rischio e avevano fatto male i conti. Le Spie del movimento ebraico ad Haifa avevano appreso che nell’importante base navale inglese in Palestina si stava allestendo un bacino per accogliere un sottomarino danneggiato, nonostante le misure di sicurezza poste in essere dalle autorità. Del resto gli Inglesi non è che potessero indefinitamente tenere un sottomarino nucleare mezzo sbelinato a Cipro. Quindi il tentativo di trasferirlo in un porto attrezzato per la sua riparazione era pressoché inevitabile. L’Ammiragliato però non aveva fatto bene i conti con l’efficientissima rete di spioni ebrei operanti presso ed all’interno della base navale di Haifa, alla quale non sfuggiva nulla, figurarsi i preparativi per l’accoglimento di un sottomarino nucleare danneggiato. Peraltro con questa informazione pareva ormai chiaro che i danni allo Spartan dovevano essere non trascurabili, visto che si preparava per lui un bacino a secco. Immantinente gli agenti ebraici si misero in contatto con i loro omologhi del Bundesnachrichtendiens (BND) tedesco che a loro volta passarono senza porre tempo in mezzo l’informazione sia al SIS che al SIM. Da Supermarina al comando del Generale Garofali la novella arrivò a stretto giro di rete riservata della Marina, e nel giro di minuti il secondo elicottero del Maestrale venne preparato per il decollo con due siluri Mk-3 a bordo. L’ipotesi che qualcosa bolliva in pentola fu confermata anche da un’altra notizia di rilevanza militare, e cioè l'improvvisa l’uscita in mare del pattugliatore Sutton dal porto di Haifa. Non si poté stabilire la rotta di questa unità, giacché gli spioni in tempo di guerra non potevano più gironzolare con le loro barchette da diporto al largo della costa palestinese, ma certo non veniva contro la task force. Il Pattugliatore inglese doveva essere quindi diretto a nord, probabilmente per scortare il sottomarino e per metterlo in sicurezza contro eventuali elicotteri. Ricevuta questa notizia, il Generale Garofali interpellò subito l’Ammiraglio Bonzano, che oltre a comandare il 10° Gruppo Navale da Battaglia, era anche suo vice in comando per la parte navale dell’Operazione Artiglio, allo scopo di studiare una contromossa. Il Sutton era armato con un cannone da 40mm dual purpose che teoricamente poteva dare fastidio agli elicotteri italiani in missione ASW. Inoltre portava lui stesso un elicottero Lynx. Gli elicotteri italiani non potevano difendersi dalle armi antiaeree di una nave, ma potevano guidare i missili o comunque indirizzare una nave da guerra veloce contro il Sutton per ingaggiarlo a cannonate o anche a missilate, se si riteneva conveniente sprecare uno o più missili contro un’unità sottile di quel genere. Se poi gli Inglesi volevano far entrare altre navi in Mediterraneo avrebbero dovuto organizzare una missione di transito da Gibilterra, ma l’Ammiraglio Bonzano era più propenso a ritenere che il nemico avrebbe invece basato per il momento solo assetti ad ala fissa nelle basi palestinesi e a Malta, insieme ai sottomarini che già operavano in Mediterraneo. L’ipotesi dell’Ammiraglio Bonzano era che il Sutton era e sarebbe rimasta per il momento l’unica piattaforma di superficie che gli Inglesi avrebbero impiegato in teatro. L’ammiraglio conferì quindi in videoconferenza con il Generale Garofali da bordo della sua ammiraglia Giussano per definire come reagire ai movimenti inglesi. Egli espresse l’opinione che si poteva correre il rischio di assottigliare temporaneamente lo schermo antisom della Task Force E spediendo il Maestrale a tutta forza verso Cipro sia per distruggere il Sutton e sia per affidagli la caccia allo Spartan in totale autonomia. Con i suoi due elicotteri e le apparecchiature ed armamenti di bordo, la classe Maestrale era la migliore piattaforma ASW della Regia Marina a non c’era una nave più adatta a cui affidare quella missione. Gli Ordini per il Capitano di Fregata Luciano Valente partirono immediatamente, ed il Maestrale fece tosto rotta a nord alla massima velocità di 32 nodi. Il Cacciatorpediniere Da Giussano prendeva quindi il posto che il Maestrale lasciava nello schermo antisom oltre che mantenere il suo ruolo primario di picchetto AAW. Inoltre per sostituire l’area della pattuglia ASW Maestrale rimasta scoperta, venne fatto alzare in volo un ulteriore A-212 dal Giussano. Dall’altra parte del Delta del Nilo intanto, Sul Meridiano di El Alamein, il Capitano di Fregata Rech a bordo del Todaro era riuscito a ristabilire il contatto con un sottomarino una zona di convergenza davanti a lui, approssimativamente 45 miglia con rilevamento 100 gradi. Il sonar non era sicuro che si trattasse del Trafalgar che stavano inseguendo, ma di sicuro era un contatto sottomarino. Il Todaro alternava sprint a 30 nodi a decelerazioni durante le quali lasciava lavorare il sonar passivo di prua alla ricerca del loro obiettivo. Durante l’ultima decelerazione l’operatore sonar con molta eccitazione gli aveva annunciato il ristabilimento di un contatto sottomarino e adesso c’era da concentrarsi al massimo sul ridurre le distanze, identificarlo positivamente e soprattutto non perderlo. Sarebbe occorso ancora un certo tempo, ma per non sapere né leggere e né scrivere, il Capitano Rech fece caricare i tubi lanciasiluri con gli Mk-5. Doveva naturalmente anche tenere conto del fatto che il sottomarino davanti a lui era pure sicuramente “in ascolto” con il suo apparato rimorchiato e che durante le accelerazioni specialmente, questi potesse aver sentito il Todaro che gli navigava di poppa. Occorreva stare quindi molto attenti. La fregata Lupo invece era sempre in pattugliamento antisom sul versante occidentale della task force. Spazzava la sua zona di competenza con il sonar attivo a scafo ed era nel momento del pendolo da sud ovest con rotta 50 gradi circa verso il centro dello schieramento navale italiano. Aveva appena recuperato l’elicottero e l’equipaggio già si affrettava a rifornirlo per metterlo in condizione di volare al più presto possibile. Improvvisamente come spesso avviene nella guerra sottomarina, la routine della nave venne interrotta brutalmente dalla voce concitata dell’operatore al sonar: “Plancia, Sonar. Siluri in acqua numero di due, rilevamento 280 distanza 8 miglia! Hanno già attivo il sonar!” La centrale di combattimento cercò di essere il più precisa possibile. Chiunque avesse lanciato era vicinissimo. L’attimo di incertezza conseguente all’arresto cardiaco del comandante durò un paio di frazioni di secondo. “Macchine avanti tutta, barra a dritta, venire a nuova rotta 180! Mettere in mare l’esca rimorchiata!” gli ordini del Capitano Norma si succedettero veloci e secondo il manuale. “Ufficiale Tattico” “Signore?!” “Indirizzate un Mk-3 sul rilevamento del lancio” “Si Signor Comandante. Siluro sul rilevamento di lancio.” Il Sottotenente di Vascello Venuti diede le necessarie disposizioni al guardiamarina che si occupava dei tubi lanciasiluri, ed il lanciatore di sinistra brandeggiò sul rilevamento delle armi in arrivo e rilasciò uno dei siluri leggeri in dotazione alla fregata. “Comunicazioni; date notizia al comando di gruppo che siamo sotto attacco da parte di un sottomarino. C’è un sottomarino inglese proprio nel bel mezzo dello schermo. Eseguite!” La nave vibrò sotto l’accelerazione improvvisa e si inclinò paurosamente verso sinistra nell’effettuare la strettissima virata che avrebbe dovuto portarla in un assetto di minima presentazione di segnatura ai sonar di ricerca dei due siluri. Gli ordigni venivano dritti su di loro. Quando il primo fu a 600 metri dalla poppa del Lupo esplose sull’esca, il secondo invece la fregata lo eluse con una contromanovra all’ultimo secondo che fece andare il siluro per frasche, salvando la nave ed il suo equipaggio. D’altra parte non si ebbe nessuna notizia nemmeno dal siluro sganciato sul rilevamento come reazione da parte della fregata italiana. Chissà dov’era il sottomarino che aveva lanciato. Il rapporto post azione del Lupo, che verrà mandato via messaggio compresso a Supermarina parlerà ancora di inefficienza dei siluri pesanti di produzione inglese, e cioè dei Tigerfish, a conferma dei rapporti anteguerra del SIM. Si confermerà altresì la spettrale silenziosità della classe Trafalgar a livelli ancora più preoccupanti di quelli attribuiti a tale classe di sottomarini in tempo di pace. Quest’ultimo era un dato veramente preoccupante per lo stato maggiore della marina a Roma. Se un Trafalgar poteva penetrare uno schermo di sonar attivi eliportati ed il pattugliamento di una fregata antisom dedicata, allora nessuno era al sicuro nella task force. Purtroppo quello che né Supermarina e né il comando della task force sapevano era che l’intero rapporto post missione del Lupo era senza valore in quanto ignorava del tutto i presupposti dell’azione. Tali presupposti che vennero alla luce solo più tardi, erano che il sottomarino che aveva attaccato il Lupo non era un Trafalgar, bensì quel Los Angeles migliorato (Classe San Juan) che tre giorni prima si era sottratto alla caccia degli assetti ASW italiani, aveva in seguito girato al largo della task force verso levante e si era poi buttato di nuovo tra le maglie sonar a metà della formazione italiana, passando del tutto inosservato. Naturalmente anche il rapporto sull’attacco nemico con i siluri era sbagliato. I due siluri che avevano graziato il Lupo naturalmente non erano Tigersfish ma M-48 ADCAP americani; armi letali ed affidabili, che in questa circostanza particolare non avevano brillato, anche a causa dell’eccellente conduzione della nave da parte del Capitano suo comandante. Normalmente un M-48 non lasciava molto scampo alla sua preda, in questo caso gli Italiani ebbero n gran bucio di cu*o, e gli ADCAP sembrarono Tigersfish.
Il Littorio aveva tutte le squadre di ingegneria impegnate a cercare di riparare la falla provocata dal siluro e tutte le squadre antincendio a contenere le fiamme nel compartimento a mezza nave. Si lottava per circoscrivere le fiamme giacché non si riusciva ad isolarle per via dei danni strutturali subiti dallo scafo. In camera di manovra invece si lottava per cercare di salvare la barca da ulteriori danni. Il problema era sempre lo stesso: fare fessi gli elicotteri inglesi. “Alla via così macchine avanti tutta. Cerchiamo di tenerci attaccati alla piattaforma continentale.” L’intendimento di Lucci era adesso quello di strisciare lungo il basso fondale della costa nord della penisola iberica, confondersi con il riverbero acustico e poi al momento opportuno, virare a sinistra e scomparire nelle profondità del mare tra Spagna e Francia facendo rotta di ritorno verso Bordeaux. Bisognava a tutti costi eludere i due elicotteri che lo stavano braccando o non c’era dubbio, gli Inglesi avrebbero distrutto il sottomarino. “Sonar Situazione” chiese Lucci, chino sul tavolo cartografico digitale al centro della camera di manovra. “L’operatore aveva appena captato una nuova serie di impulsi da parte del sonar attivo del Sea King, e quindi la sua risposta non fu particolarmente entusiastica. Comunicare immediatamente dopo la discesa in acqua di un secondo siluro destinato al Littorio fu ancora meno piacevole. “Stesso rilevamento del lancio precedente! Ripeto stesso rilevamento. Chiunque abbia lanciato, quello era il suo ultimo siluro!” “Barra tutta a sinistra, mantenere piena propulsione, timoni a scendere in conformità del profilo della piattaforma, rilasciare un secondo generatore di rumori.” l’operatore sonar si sovrappose alla voce del comandante, cosa da fare solo in caso di necessità estrema; e questa era una di quelle: “Il siluro ci passa di poppa a tribordo, non ci ha agganciati, ripeto il siluro non ci ha acquisiti!” “Annullare l’ultimo ordine; pari avanti mezza, barra a dritta rotta 67 timoni sempre a scendere.” Lucci mentalmente ringraziò gli dei del mare per l'inaspettato ma ben venuto colpo di cu*o. “Danni; Comandante. Aggiornare rapporto!” “Comandante, stiamo cercando di contenere l’incendio, l’allagamento nel compartimento missili ed alloggi sottufficiali si estende ma non abbiamo ancora perso le speranze. Ci stiamo lavorando.” “Tenente velocizzate. Uno degli elicotteri ha lanciato il suo ultimo siluro. Dobbiamo fronteggiare il secondo elicottero e poi possiamo portare a casa la nave. Ma mi occorre che lei mi tappi i buchi e mi spenga le fiamme.” “Si Signore.” Il suono del siluro, gradatamente si perse a tribordo. Lucci si rivolse si nuovo ai suoi ufficiali in camera di manovra, i quali erano tutti assorti a guardare all’insù come se volessero ascoltare i movimenti degli elicotteri con le loro stesse orecchie. Il Littorio continuò per un certo tempo a navigare alla massima velocità che era ancora diminuita per effetto della maggiore quantità di acqua imbarcata dal sottomarino. Se son si fosse risolto presto il problema, la stabilità della nave sarebbe stata compromessa, e con essa la possibilità di riemergere. Non appena il Littorio oltrepassò il limite della fossa oceanica, Lucci diede ordine di buttarsi al di sotto dello strato per tentare di sfuggire ai sonar attivi nemici. Era un enorme rischi quello di buttare la nave sotto lo strato in quelle condizioni, ma Lucci doveva, doveva assolutamente provare a confondere la ricerca del nemico o erano tutti morti in ogni caso. Il Sea King avrebbe portato a bersaglio l'altro elicottero e gli Inglesi li avrebbero distrutti. Dunque Lucci ignorò le occhiate spaventate dei suoi uomini in camera di manovra. Inaspettatamente però si verificò che per un bel po’ non si sentirono più gli impulsi del maledetto trasduttore nemico ad immersione e Lucci si buttò su un’altra decisione ardita, nonostante la situazione precaria. “Macchine avanti avanti un terzo, venire a quota periscopica, alla via così” Poteva certamente essere un trucco di un elicottero che aveva perso il contatto quello di attirare la preda, specie se ferita, a venire ad una quota dove sarebbe stato più facile da scoprire. Lucci volle correre il rischio. Capire la situazione sopra di lui lo avrebbe portato a decisioni migliori per la sopravvivenza della nave. I dannati elicotteri erano ben più difficili da sentire con il sonar passivo dei contatti in acqua. “Alza periscopio tattico”, (cioè quello più piccolo che era più difficile da scoprire ad occhio e al radar). Lucci diede un rapidissimo giro d’orizzonte e finalmente un sorriso stanco apparve sul suo viso provato da qualche ora di azione sull’orlo del baratro. “Tutto libero. Nessun volatile a giro d’orizzonte.” Il periscopio venne rapidamente calato e riportato nella sua sede a riposo. Le grida di giubilo risuonarono in camera di manovra e poi per tutta la nave quando l'annuncio venne dato tramite interfono. Gli unici che non ebbero il tempo di giubilare erano gli addetti al controllo danni, ancora al lavoro spasmodico per salvare la tinozza da un miliardo di lire. “Ipotesi primo ufficiale?” “Comandante, sappiamo che il Sea King ha finito i siluri.” il primo ufficiale meditò per qualche secondo. “Se era accompagnato da un Lynx, questo deve aver finito il carburante.” “Sta bene” rispose il capitano. Ribadì l’ordine di contenere l’incendio a mezza nave, ordinò scendere a 50 metri in modo da mantenere una profondità tale da poter venire fuori in fretta in caso di necessità. La navigazione continuò per una mezzora circa prima che l’ufficiale ingegnere comunicasse al comandante che l’incendio a mezza nave era stato domato. Rimaneva adesso da gestire l’allagamento della nave che diventava sempre più critico. Adesso che si potevano però concentrare tutte le squadre controllo danni su quello, l’ufficiale tecnico era più ottimista. Ed infatti dopo un’altra ora di incessante lavoro, si riuscì anche a rattoppare la falla provocata dal siluro, e a sparare fuori l’acqua con le pompe e i mezzi di sfiato. Lucci ordinò cena speciale e regale per le squadre d'emergenza e la cucina si mise all'indefesso lavoro per servire la cena speciale e anche quella normale a quella parte di equipaggio che finalmente smontava dai posti di combattimento dopo quasi una giornata di battaglia. Seppur a velocità dimezzata il Littorio poté quindi salvare la pelle procedere verso Bordeaux. Si può certamente dire che la scampò per il rotto della cuffia. Non così per i britannici, che dopo innumerevoli ed eroici sforzi delle loro squadre di emergenza militari a bordo del Lancelot, aiutate da quelle del Fearless, dovettero rassegnarsi all’affondamento della nave. La consolazione fu che almeno riuscirono a salvare tutto il personale dell’esercito imbarcato, meno naturalmente le vittime causate dall’impatto dei siluri italiani. Il materiale, i veicoli e l’armamento della 7a Brigata Corazzata andarono naturalmente completamente perduti con la nave. A Bordeaux tornò senza eccessivi problemi anche il Roma, che non era mai stato veramente localizzato delle forze antisom britanniche, ma che non poté effettuare un secondo attacco, in quanto dovette allontanarsi troppo dal convoglio per sfuggire alla spietata caccia a cui il nemico lo aveva sottoposto dopo l’attacco. La vittoria strategica nella prima battaglia dell’Atlantico non appartenne dunque alla Regia Marina, in quanto che la maggior parte del convoglio britannico passò. Doveva adesso passare anche dall’Oceano Indiano, dove pur essendo l’opposizione nettamente inferiore (la fregata Zeffiro), era comunque costituita da una unità armata con missili a lungo raggio, che se fosse riuscita ad identificare il nemico prima che il nemico avesse localizzato lei, qualche altro bel danno poteva ben farlo. L’obiettivo rimaneva quello di far arrivare gli Inglesi a Kuwait City “sui cerchioni”. Per quanto riguarda la vittoria tattica nella prima battaglia dell’Atlantico, si può cautamente affermare che essa fu italiana perché due grossi trasporti affondati contro un sottomarino riparabile in bacino era un consuntivo decisamente favorevole agli italiani. Non rimaneva che studiare attentamente i rapporti dei comandanti coinvolti nello scontro e le tattiche utilizzate, per ricavarne lezioni su come proseguire le operazioni. La prima vera battaglia navale della storia moderna era stata dunque combattuta, vinta e persa. Equipaggio del Littorio in fase di attracco a BETASOM, la base dei sottomarini nucleari italiani in a Bordeaux al termie della missione di contrasto al convoglio inglese. Il Capitano di Fregata Giacinto Lucci (al centro), appare particolarmente felice di aver riportato a casa la pelle sua e quella del suo equipaggio. Adesso il Littorio va in bacino per le riparazioni.
Gli han detto bene i dadi al sub... è una cosa che ignoro: che probabilità ci sono nella "realtà" che un sub sopravviva a una botta simile? Immagino che sull'argomento ci siano solo stime o modelli. Hai accennato alle Falklands ma non è che la marina inglese se la sia passata benissimo con gli Exocet...
Caro Prostetnico, Le possibilità che un sottomarino da 7500 tonnellate quale la classe Littorio sopravviva ad un colpo diretto di un siluro leggero con testata da 50 chilogrammi quale quella dello Stingray (precisamente 45 chilogrammi) sono molto elevate a meno che l'ordigno non causi immediatamente un danno critico difficilmente rabberciabile tipo attacco degli alberi delle eliche/a. Il pericolo più grande, in particolare per un sottomarino, anche quando colpito da un arma non di grande potenza è quello della "degenerazione dei danni", nel senso che se le squadre di emergenza non sono abbastanza addestrate e veloci a lottare contro gli effetti degenerativi anche di un danno di per sé anche non immediatamente letale per la piattaforma, la sua sopravvivenza può essere in pericolo. Il Littorio si è salvato per due motivi: il primo che le squadre di emergenza sono alla lunga riuscite a controllare gli effetti dell'allagamento e dell'incendio a bordo. Il secondo, ben più importante del primo, è che il secondo siluro non ha colpito. Nella situazione in cui si trovava il sottomarino all'epoca dei fatti, un secondo colpo pur magari non distruggendo il sottomarino avrebbe saturato e sopravanzato la capacità delle squadre di controllo danni di mantenere la stabilità e la sopravvivenza della nave. Esiste un punto per i sottomarini al di là del quale la stabilità della piattaforma è compromessa a tal punto che l'emersione diventa impossibile e la nave condannata, senza contare il classico e vecchio pericolo che un incendio a bordo raggiunga zone della nave che non dovrebbe mai raggiungere. Per quanto riguarda invece il mio accenno alle Falklands, non mi riferivo alle operazioni navali ed anfibie che hanno caratterizzato la campagna vera e propria, bensì alla navigazione di trasferimento dalle isole britanniche al teatro di operazioni. In quell'occasione la Royal Navy ebbe un trasferimento indolore e vacanziero. Contro la fanta Regia Marina, che è una marina semi oceanica dotata di piattaforme di diverso livello rispetto a quelle schierate dall'Argentina reale, il trasferimento invece si è dimostrato finora tutt'altro che una crociera di piacere. Come avrai notato infatti, i sistemi d'arma proposti nel racconto sono un miscuglio tra reale e fantastico come L'SSN classe Littorio, L'SSBN classe Grandi Italiani, l'Incrociatore da battaglia nucleare classe Pola, l'intercettore Fiat G-98 e sistemi d'arma realmente utilizzati dalle forze armate italiane negli anni novanta. Alcuni sistemi sono invece sistemi reali a cui ho cambiato solo nome e storia, come ad esempio lo Junkers-99 (Il Tornado), che nel racconto è un velivolo esclusivamente tedesco, utilizzato anche dalla Regia Aeronautica ma evidentemente non dalla RAF, che in questa realtà parallela non lo ha mai avuto in dotazione.
Come ogni mattina alle ore 0400 Aimone era in piedi per iniziare a lavorare. Era abituato sin da piccolo ad andare a dormire alle 2100 e sette ore per notte gli erano più che sufficienti per ricominciare a funzionare il giorno dopo. Avrebbe dovuto regolare la sua attività di guerra in maniera da riuscire ad andare comunque a letto alle 2100. Era una routine alla quale non poteva rinunciare. Le prime tre ore della giornata dopo la colazione a base di latte e caffè le dedicava alle questioni interne italiane. La costituzione del 51 dava a lui una certa competenza legislativa in materia di politica interna, mentre in politica estera nominalmente il Duce aveva completa autonomia. Questo appunto nominalmente, perché il Conte Ciano non tralasciava mai di consultarlo per lo meno sulle questioni più delicate. Anche quella particolare mattina, nella quale il Re sarebbe andato per la prima volta in missione di guerra, egli non tralasciò in videoconferenza con Roma di dedicare le sue consuete tre ore di lavoro alla politica interna del paese con la tazza di latte e caffè ancora sulla sua scrivania nell’Hangar comando. Dopo le consuete bestemmie per essersi spellato la pelle del labbro superiore con la temperatura della colazione, si mise al lavoro. Le questioni all’ordine del giorno erano la politica demografica, la questione del salario minimo e la situazione dell’industria colpita pesantemente dai dazi elevati dagli Stati Uniti sui prodotti italiani. La terza questione era completamente lasciata al ministero dell’economia che aveva carta bianca nell’amministrare le ritorsioni che ritenesse più appropriate nei confronti degli Americani. Un suggerimento però ce l’aveva: la diminuzione del prezzo delle esportazioni del petrolio italiano proveniente dai pozzi libici e da quelli della Campania e della Calabria a qui paesi che si rifornivano regolarmente dagli Americani, per indurli a cambiare pusher. Questo avrebbe fatto arrabbiare le famigliole di petrolieri Italiani, ma Aimone, il cui trono non si reggeva sul loro sostegno, bensì sul sostegno del popolo, di quanto fossero felici petrolieri e banchieri, se ne infischiava altamente. Sul Salario minimo, il Re non aveva dubbi, e sapeva andare anche contro richieste che lui riteneva controproducenti quando era il caso, argomentando le sue scelte. Del resto, Aimone che aveva ceduto tutti, dicasi tutti, i beni della corona ad una fondazione per le cure mediche della popolazione bisognosa, che aveva costretto tutti i suoi familiari ad andare a lavorare, e che campava con il suo stipendio certo non lauto per un sovrano, di ufficiale dell’aeronautica, quando appariva in televisione a parlare di questioni economiche era ascoltato da tutti con molta attenzione. La Fondazione Bianca, così si chiamava la persona giuridica a cui Aimone non aveva nemmeno voluto dare un nome che potesse associarsi alla famiglia reale, lavorava in silenzio, investiva e faceva accordi sottobanco con istituzioni italiane e non. I suoi esperti finanziari spremevano soldi ogni giorno dai mercati e li riversavano in strutture mediche di proprietà della fondazione stessa che si occupavano di chi non poteva permettersi adeguate cure mediche sull’intero territorio nazionale, Italiani o Coloniali che fossero. La vecchia dimora di famiglia a Torino era adesso di proprietà della fondazione ed ospitava i suoi uffici direttivi, mentre i membri di casa Savoia si erano dovuti tutti cercare casa. Lui che in teoria avrebbe dovuto vivere al Quirinale, era il primo che campava a Brindisi in una scialba palazzina comando della Regia Arma Azzurra. Al Quirinale ci campava la Regina Madre a cui il figlio comunque non concedeva particolari "larghezze", cosa che alla franco-borbonica madre del Re non andava giù perché le sue larghezze doveva farsele finanziare dalla sua famiglia d'origine. Il discorso in televisione agli Italiani sulle varie questioni, venne registrato lì, nella base egiziana di Damietta per essere diffuso ad orario consono; con Aimone in uniforme di volo nell’hangar comando. Il sovrano espose alla nazione di persona, come spesso faceva, i provvedimenti che intendeva prendere. Come al solito, ci furono i concordi e i discordi, ma tutti come detto ascoltarono con la massima attenzione un Re che aveva ridotto tutti i suoi interessi personali al semplice servizio per la popolazione. La popolarità di Aimone si rifletteva anche sul regime fascista al quale negli anni il Conte Ciano fin dove aveva potuto aveva dato una bella ripulita da imbelli parassiti e leccapiedi che erano sempre abbondati e che ci erano voluti anni per stroncare. Con questo non è che l’amministrazione dello stato fosse improvvisamente diventata di stampo germanico, ma non era più nemmeno la masnada di nullafacenti che era stara tanto in voga sin dall’Unità d’Italia. Del resto la riforma drastica del lavoro voluta da Aimone, a proposito della quale ancora ragazzo si era fatto consigliare da specialisti inglesi della City, non ammetteva gli inutili, nemmeno anzi soprattutto nell’amministrazione statale. La porta era girevole, e chi non produceva, scompariva; non più al confino come quando c’era LUI, ma almeno dal posto di lavoro. La missione per l’esordio della Regia in Egitto prevedeva una ricognizione tra Suez e Ramadan City per individuare la posizione del comando della 3a armata egiziana, sul quale indirizzare poi i Macchi per l’attacco. L’azione era parte del piano di battaglia per riconquistare Suez: il primo contributo della Regia doveva essere quello seminare il disordine tra i reparti dell’armata nemica colpendone il comando. Si trattava sulla carta di una missione di assaggio per la Regia Aeronautica nel suo primo rischieramento di guerra dal 1949. Per il momento l’opposizione era valutata alle unità antiaeree organiche della 3a armata basate solo su artiglieria convenzionale da 40 e 50mm e su possibili pattuglie di cacciabombardieri Harrier tra quelli sopravvissuti all’incursione degli arditi basati in Palestina. Gli Harrier Gr. 5 erano aerei principalmente da attacco al suolo e non in grado di impensierire i caccia Fiat Italiani. Non portavano né missili a lungo raggio e né tanto meno erano provvisti di radar aria aria. Tuttavia non potevano essere completamente ignorati. Pertanto il Re aveva richiesto ed ottenuto l’assegnazione all’aerobrigata di un Caproni 510 ALDR della 17a squadriglia dall’Italia, che era atterrato nella notte a Damietta ed era stato messo agli ordini del Generale Lucani, il quale aveva prima ringraziato il Re per il regalo e poi incaricato il IX gruppo caccia di garantirne la protezione in via continuativa a terra ed in volo. Terminato il tempo da dedicare alla politica interna, Aimone si apprestò a diramare gli ordini operativi per il IX gruppo. All’interno del reparto c’erano due piloti che non erano ancora ufficialmente classificati come pronti al combattimento ed Aimone era fermamente deciso ad utilizzare queste prime missioni ancora non particolarmente impegnative per far acquisire esperienza a questi giovani tenenti. I ragazzi erano appena arrivati dagli RCU e dovevano essere messi a regime con l'attività operativa; onde per cui la squadriglia rossa sarebbe andata in volo con il Maggiore Filzi ed il Tenente Misura, avrebbe formato una pattuglia aerea di combattimento sulla verticale della base e costituito la scorta dell’ALDR del Maggiore Raimondi, mentre lui ed il Tenente Gangi Marini sarebbero andati a fare la ricognizione. Incazzatissimo il Capitano Marenco comandante della squadriglia blu, che in ricognizione voleva andarci lui, ma contro il Re, nonché comandante del gruppo, c’era poco da sbattere i piedi in terra. Se non che a fregare Aimone intervenne il comandante dell’aerobrigata, il quale dispose che la missione di ricognizione fosse affidata ai Macchi del 51° Gruppo, ed a quel punto Aimone che aveva già affidato il comando della pattuglia di sorveglianza e combattimento all’amico Filzi, non se la sentì di emanare il contrordine per andare in volo al suo posto, e dovette quindi rassegnarsi a rimanere a terra per quel primo giorno di operazioni. Mesto ed incazzato, il Re si portò alla biga mobile per seguire le operazioni, in collegamento con il centro radar degli Spada e del Caproni, attraverso i quali avrebbe almeno condotto l’azione da terra.
“Volo Paiton qui Joker date conferma.” “Qui Paiton, siamo su Capo El Bar ed iniziamo orbita.” I Fiat del Maggiore Filzi diedero conferma che stavano prendendo possesso della loro area di pattuglia. Nello stesso tempo Aimone era sulle frequenze radio e radar del volo Luna (I Macchi in missione di ricognizione e del volo Roccia (l’ALRD). Tutti quanti erano sotto il controllo operativo di Magnus, il nominativo radio del comandante dell’aerobrigata Generale Lucani posizionato a terra nel veicolo radar del 12° Gruppo aeromissili, nascosto in un argine a bordo strada tra Damietta e Mansoura. Da lì il generale coordinava tutta l’azione. Il primo a farsi vivo, fu come c’era da aspettarsi il Caproni. “A tutti i voli qui Roccia. Cattivi decollati da Al Buhat in numero di due, velocità 150 nodi quota di decollo, rotta 290. Il Caproni aveva beccato gli Harrier inglesi appena staccatisi dalla pista a conferma della serietà e dello spessore dei radiolocalizzatori aeroportati della Selenia. Dovevano essere per forza gli Harrier. Tutto il traffico civile era stato deviato fuori dalla zona calda del Sinai e dell’Egitto. “Qui Luna, andiamo in apnea!” Il comando italiano non sapeva se gli Harrier fossero decollati su allarme o per un volo di pattuglia. Dovevano partire dal presupposto che gli Inglesi non li avessero ancora scoperti, giacché erano fuori dal raggio radar delle postazioni rimaste in mano agli Egiziani nel delta. In quanto agli Inglesi, la loro stazione radar di Gerusalemme e quella di Al Buhat erano per il momento troppo distanti dalla posizione degli aerei italiani, ed infatti i ricevitori di segnale (RWR) di questi ultimi erano sgombri. In ogni caso i Macchi si portarono ad una quota di 20-30 metri (apnea) per iniziare l’avvicinamento alla zona di ricognizione assegnata. Presto sarebbero entrati nel raggio d’azione della stazione di radiolocalizzazione di Suez City, questa si, ancora in mano agli Egiziani. La sorpresa per il volo Luna fu quella di vedere i loro ricevitori attivarsi a ore quattro, direzione dalla quale ricevettero un segnale abbastanza forte da poter dire di essere stati probabilmente rilevati, nonostante la bassa quota. “Iveco qui Luna. Penso ci abbiano beccati sulla verticale di Sheben El-Kom. Forse gli Egiziani hanno un radiolocalizzatore anche ad Alessandria. Per precauzione rimaniamo a 30 metri informativo.” Iveco era il comandante del 51° Gruppo Bombardieri Leggeri Tenente Colonnello Carlo Manenti che era rimasto a terra e comandava i suoi aerei da lì. “Roger Luna proseguite. Non è noto se il nemico ha un radar ad Alessandria, ma adesso dobbiamo presumere che ce l’abbia.” In base all’intento operativo dell’aerobrigata di tenere sgombri i cieli sopra il delta e zone limitrofe, Aimone intanto ordinava i suoi su nuova rotta per intercettare gli Harrier. Tra il Sinai ed il Caproni che dovevano proteggere non era segnalato null'altro che gli Harrier e quindi i Fiat del Maggiore Filzi potevano essere reindirizzati contro i due cattivi. Tutti i comandi di gruppo avevano accesso diretto al supporto del volo roccia ed Aimone si regolò di conseguenza comunicando il suo intento al radiolocalizzatore aeroportato. “Roccia qui Joker. Mandate i miei aerei contro i banditi con il miglior vettore possibile. La distanza è scesa a 130 chilometri ed è ora di fare qualcosa. Aimone non aveva finito di trasmettere questo messaggio che il Caproni ebbe a comunicare nuove e non previste notizie sul nemico. “Roccia a tutti; i banditi hanno virato per 180 gradi. Velocità costante 450 nodi, distanza dal volo Paiton 80 chilometri. Hanno capito di essere stati scoperti.” A questo punto la decisione spettava ad Aimone, il comandante dei caccia. “Roccia qui Joker, ripulitemi il cielo da quei cattivi. Autorizzati al tiro, ripeto autorizzati al tiro.” Il comandante dell’aerobrigata ascoltava e fremeva. Aveva dato ordine al IX di tenere sgombri i cieli sul delta e adesso doveva rispettare l’autonomia di comando dei suoi gruppi nell’eseguire le sue direttive; ma lui i caccia contro il nemico non li avrebbe mandati prima di vedere dove andava a parare la virata dei cattivi, anche perché quel movimento portava i Fiat dentro il raggio di radiolocalizzazione della base inglese in Palestina. Tornando agli aerei in missione di ricognizione, a questo punto lo scenario sotto alle pance dei Macchi cambiava dalle coltivazioni del delta al deserto della valle del Nilo, ed il volo Luna si preparava all’ultima virata a sinistra per il punto di inizio missione. “Attenzione volo Paiton, qui Roccia. Venire a nuova rotta 65, prepararsi a virare a dritta per portarvi alle spalle del nemico.” Gli operatori radar del Caproni del Maggiore Raimondi stavano diligentemente guidando i Fiat all’intercettazione degli Harrier inglesi dal miglior angolo di attacco possibile. I Fiat virarono dolcemente all’unisono per la rotta indicata, mantenendo una velocità militare costante di 500 nodi. “Attenzione volo Paiton, qui Roccia.” il Caproni era costretto ad inserirsi di nuovo prepotentemente nella frequenza della missione. “I banditi hanno aumentato la velocità a 600 nodi e si dirigono a tutta velocità contro Luna; distanza 220 chilometri in rapida diminuzione. Volo Paiton attendi per nuova rotta di intercettazione.” Filzi fece una smorfia di disappunto sotto la maschera ad ossigeno. “Roccia Qui Paiton, copiato vostro ultimo messaggio. Dateci rotta.” disse con impazienza il comandante in volo dei Fiat. Filzi avrebbe davvero voluto attivare i suoi radiolocalizzatori di bordo e regolarsi da solo per andare ad abbattere gli Inglesi, ma era vincolato dal fatto che il nemico non doveva scoprire la presenza del volo Paiton sulla penisola del Sinai. Quello che nessuno dei comandi italiani sapeva era che il volo dei Fiat al momento dell’ultima virata aveva causato un eco di ritorno sul radiolocalizzatore della base di Al Buhat e che la presenza di velivoli italiani che inseguivano gli Harrier era adesso nota agli Inglesi. Per lo meno nessuno lo sapeva, fino a quando gli RWR a bordo dei Fiat non si illuminarono a ore due. La reazione di Filzi fu immediata. “Joker qui Paiton. Il nemico ci ha probabilmente localizzati tra il laghi Bardawil ed El-Arish sulla costa del Sinai. Chiedo permesso di utilizzare i miei strumenti in autonomia per intercettare il nemico. Aimone ci pensò uno o due secondi prima di rispondere. In una battaglia aerea moderna il tempo per prendere decisioni era veramente limitato. “Negativo Paiton, continuate a farvi guidare da Roccia. Non possiamo essere sicuri che siate stati localizzati. Confermate.” “E’ un Roger Joker” rispose Filzi. La bestemmia seguente si assicurò di pensarla solamente. Non sarebbe stato carino insultare il Re ed il suo comandante di gruppo. “Paiton qui Roccia. Il nemico ha virato di nuovo per 120 gradi velocità invariata, si allontana dal volo Luna. Se sono Harrier stanno volando al massimo della loro velocità. Ipotizzo che si siano resi conto della vostra posizione.” “Roger Roccia...Joker qui Paiton, utilizzare i nostri radar interrogativo. Nemico sa dove siamo e si trova al limite della portata dell’ALRD.” Di nuovo Aimone dovette pensare un paio di secondi, e questa volta diede il permesso di attivare i radiolocalizzatori dei Fiat, anche allo scopo di agganciare eventuali missili sui bersagli. Il Maggiore Filzi passò alla frequenza di squadriglia. “Bradipo qui Joker. Attiva il radar e stammi incollato. Qualunque cosa faccia io seguimi. Andiamo a prendere gli Inglesi, prima che si riportino sulla loro base.” I Fiat, virarono in formazione per gradi 180 ed accelerarono a piena potenza militare. Per i Macchi la velocità massima alla quale il loro pod da ricognizione poteva funzionare era di 450 nodi e così i due aerei arrivarono puntuali sul punto iniziale di missione e là ingaggiarono una perfetta virata all’unisono, piazzando si uno dietro l’altro cominciare la parte critica. La zona si rivelò pullulante di truppe armate con cannoni antiaerei a guida ottica. Certo armi obsolete risalenti alla grande guerra, ma in grandi quantità potevano essere ancora pericolose. Ragion per cui il volo Luna si portò alla massima quota di funzionamento degli apparati da ricognizione, alla quale quelle armi antiaeree erano meno efficaci. Alcune delle posizioni terrestri egiziane erano già conosciute in quanto scoperte dalla ricognizione terrestre di pattuglie dell’esercito. Le altre, incluso l’obiettivo principale da localizzare e cioè il comando della 3a armata, erano l’ oggetto della missione di ricognizione in corso da parte della Regia Aeronautica. Quindi il Maggiore Lunardi al comando della pattuglia di Macchi conosceva la probabile ubicazione di alcuni dei cannoni AA ma non di tutti. Avrebbe dovuto improvvisare. Sopra al deserto del Sinai il Maggiore Filzi aveva oramai la sicurezza che gli Harrier nemici sapessero di essere inseguiti e fossero anche al corrente della posizione degli inseguitori. Non solo avevano sicuramente captato i segnali in modalità ricerca dei radiolocalizzatori Grifo dei Fiat, ma quasi sicuramente il controllo a terra li aveva informati della posizione degli aerei italiani all’inseguimento, tanto e vero che gli Inglesi si lanciarono subito in una violenta virata sincrona a sinistra in direzione della loro base. Filzi ancora non aveva il contatto visivo, ma commutò il suo radar da ricerca a tracciamento per cominciare a fornire informazioni interessanti alla quadriglia di Aspide che portava sotto la fusoliera. “Bradipo, io mi prendo il gregario, tu tira sul leader.” fu l’ordine perentorio di Filzi al suo compagno di volo. Anni di prove ed addestramenti stavano per essere messi alla prova in quel preciso momento. Nessuno dei due radar italiani ebbe nessun problema nell’agganciare il rispettivo aereo nemico, e ciascuno dei Fiat rilasciò un missile Aspide II alla volta del rispettivo bersaglio. Gli Harrier si lanciarono immediatamente in manovre difensive accompagnate dal lancio di chaff per confondere i radar di ricerca dei missili, Il missile destinato al leader mancò il bersaglio di pochissimo, esplodendo sulla nuvola di stagnola, mentre il missile destinato al gregario fallì proprio l’agganciamento. Allo stesso tempo gli Harrier, con le loro manovre evasive puntarono la prua sul nemico allo scopo di accorciare le distanze ed arrivare a tiro dei loro Sidewinder e contemporaneamente di mettere la prua verso la loro base palestinese. Era chiaro, avendo capito i piloti inglesi di aver a che fare non solo con una sezione di aerei d’attacco in penetrazione a bassa quota ma pure con una scorta di caccia armati di missili a medio raggio, che la miglior cosa da fare era tagliare la corda, visto che i loro aerei, essenzialmente arei da attacco al suolo impropriamente chiamati multiruolo, erano inferiori a degli intercettori puri. Il Maggiore Filzi bestemmiò alquanto quando realizzò che gli Aspide avevano mancato i bersagli ma ebbe almeno la consolazione che la fusione (merge) tra i due reparti aerei avvenisse a velocità elevatissima (i Fiat volavano supersonici a 900 nodi) e che quindi non c’era nessun rischio che gli Inglesi potessero per il momento rispondere al fuoco. Mentre la battaglia aerea sul Sinai si sviluppava, sul canale i Macchi del Maggiore Lunardi cominciavano la loro corsa nel corridoio nel quale dovevano effettuare la loro missione di ricognizione. Non ebbero bisogno di aspettare a lungo prima che la contraerea rivelasse la sua presenza e due batterie di cannoni AAA aprirono immediatamente il fuoco su entrambi i velivoli. Entrambi i Macchi incominciarono una serie di manovre per evitare i traccianti che sgorgavano numerosi da terra, ma il Maggiore Lunardi veniva colpito quasi subito da una serie di proiettili da 40mm, che danneggiavano pesantemente il suo velivolo, tranciando tra l’altro alcuni dei condotti idraulici che comandavano gli alettoni e limitando severamente la possibilità di manovra del velivolo. Un’altra nutrita serie di proiettili traccianti passavano sopra e sotto il velivolo del tenente Ludovico senza colpirlo. Accoglienza caldissima sull’area dell’obiettivo. Il Tenente Ludovico nel tentativo di evitare lo sbarramento nemico andò completamente fuori rotta e si ritrovò con la prua per 300 gradi invece che per 60. Una grandissima confusione. Il Macchi del Maggiore Lunardi si lanciò in un Tonneau a bassa velocità con virata a dritta per portarsi fuori dal sentiero della contraerea nemica senza presentare ai cannoni una superficie maggiore del suo aereo come sarebbe stato se avesse effettuato una normale virata di scampo. Miracolosamente – date le condizioni del jet – la manovra riuscì e i traccianti lambirono ancora una volta il suo aereo ma senza colpirlo di nuovo. Per quanto riguarda il tenente Ludovico, si trovò totalmente disorientato dalle manovre del suo capo pattuglia ed anche lui improvvisò una manovra di sganciamento dalla parte opposta a sua volta portandosi fuori dal raggio d’azione delle batterie antiaeree nemiche eccezionalmente dense. Sul Sinai il Maggiore Filzi intuì più che vedere la manovra di scampo degli Harrier. A 900 nodi si buttò in un looping spacca ali a 9G, per tentare di rimettere la prua sul nemico prima che si allontanasse troppo. Il Tenete Misura lo seguì meglio che poté nella spericolata manovra; entrambi i piloti andarono in “visione nera” fino a quando i velivoli non si trovarono al limite superiore della manovra, i G diminuirono ed i piloti uscirono dall’apnea e riacquisirono un minimo di consapevolezza della situazione. Gli Harrier erano a quel punto fuori dalla portata visiva e fuori dal cono radar dei Fiat. Erano a tutti gli effetti per il momento scomparsi. “Roccia qui Paiton. Aggiornamento sui bersagli interrogativo.” Il maggiore fu costretto a ricorrere con impazienza all’ALRD per capire dove fossero finiti gli Inglesi. “90 chilometri ore 10” fu la laconica e neutra risposta del Caproni. Nella manovra ad altissima velocità i Fiat avevano perso il contatto. Adesso si trattava di vedere se potevano riacquistarlo prima che il nemico sfuggisse definitivamente. Era chiaro che gli Harrier non avevano intenzione di combattere contro gli specializzati aerei da caccia italiani, o almeno così pareva dalle loro manovre. “Martello, devo rientrare. L’aereo è troppo danneggiato. Continua la missione fai attenzione! La contraerea è precisa.” fu la triste comunicazione del capo pattuglia dei Macchi al suo gregario. “Qui Martello; roger Luna; porto a termine la missione.” Gli Harrier sfruttando il momento di incertezza dei Fiat si misero in rotta di scampo verso nord con l’obiettivo di raggiungere la costa prima che gli Italiani li agganciassero di nuovo con i radar di tiro e potessero dargli un’altra ripassata. Contavano di atterrare ad Al-Buhat illesi. Per affrontare i G-98 occorreva aspettare che arrivassero in teatro i Phantom o che si riuscisse a coglier i caccia italiani di sorpresa in una posizione sfavorevole. Mentre il Maggiore Lunardi abbandonava l’area di battaglia in relativa sicurezza con il suo Macchi malamente sforacchiato, il suo gregario riprendeva la concentrazione e lo stomaco per ributtarsi nel corridoio. Dall’altra parte del teatro delle operazioni i Fiat del Maggiore Filzi, dandogli di brutto con i postbuciatori entravano finalmente in contatto visivo con gli Harrier il primo dei quali era già sulla pista di Al Buhat mentre il secondo era in fase di atterraggio, non verticale per fare prima. I caccia italiani si avvicinavano alle ore tre del nemico ed avevano ancora una sola opportunità di abbattere l’Harrier ancora in fase di approccio alla pista e quindi passarono entrambi in modalità tracciamento con i Loro Grifo. Per somma sfiga il radiolocalizzatore di Filzi non riuscì ad agganciare il velivolo inglese che già si confondeva con le perturbazioni create dal riverbero col terreno nonistante il Grifo-25 fosse un radar look down shoot down. Il Tenente Misura riuscì invece a mettere il radar sul bersaglio ed a far partire un Aspide alla disperata, e per buona misura ne lanciò addirittura due. “Milano 1, Milano 1” annunciò Misura indicando il lancio di due missili a guida semiattiva. Poi l’inesperto tenente realizzò che era troppo veloce, che l'Harrier era troppo lento e che di conseguenza non sarebbe riuscito a mantenere il bersaglio nel inviluppo del radar per l'intera la traiettoria dei missili, cosa indispensabile perché essi mantenessero la guida. Se ne accorse anche il Maggiore Filzi che già in rilassata virata a sinistra verso casa stava comunque osservando la geometria del tiro. “Tonneau a botte! Tonneau a botte!” gridò alla radio il maggiore, indicando al suo inesperto gregario l'unica speranza di non sopravanzare il bersaglio con il fascio radar perdendo così la guida dei missili. Il Tenente Misura aveva provato innumerevoli volte la manovra e sapeva come farla, ma non l’aveva mai provata sotto pressione e con poche frazioni di secondi a disposizione. Il suo Fiat rollò con decisione contemporaneamente sul suo asse a lungo la circonferenza dell’ipotetico cilindro che rappresentava la figura acrobatica a botte. A metà figura perse la prua del velivolo, e con quella la guida dei due Aspide che si autodistrussero entrambi in aria avendo smarrito il fascio radar che li guidava. Ci mancò un pelo che la fallita manovra del Fiat portasse Misura a tiro della batteria di Oerlikon da 35mm che ancora difendeva la base inglese dopo che i Rapier erano stati distrutti dagli Arditi del IX Reggimento la settimana prima. Con questo terminava la missione dei Fiat, che mestamente si rassegnarono a ritornare alla base di Damietta, dopo aver ripreso la formazione sul Mediterraneo. Per il Macchi del Tenente Ludovico le cose furono furono leggermente più movimentate. Con coraggio l’ufficiale si ributtò nel corridoio alla massima velocità di quasi 600 nodi per minimizzare la permanenza nella zona pericolosa, nonostante rischiasse l'avaria dell'apparecchiaura fotografica a quella velocità: leggiamo dalle sue memorie: “Avevo ordini precisi e nonostante quello che era successo al maggiore, mi infilai con precisa manovra sopra la massa di acquitrini e campi coltivati che costituivano il corridoio bersaglio. Immediatamente potei scorgere i fili dei traccianti provenire da destra, da sinistra e di fronte. Non era la precisione del fuoco a preoccuparmi, quanto il suo volume. Un vero inferno a cui nessun volo di addestramento poteva avermi preparato. Tentai di tenere l’aeroplano il più dritto possibile per effettuare le riprese ed allo stesso tempo istintivamente tentai qualche ondeggiamento per non costituire proprio un bersaglio fisso per quei cannoni, che avevano la possibilità di concentrarsi tutti su di me. La paura che provai in quei momenti è difficile da descrivere. Si sentono letteralmente lo stomaco e l’intestino muoversi nelle loro sedi. In qualche modo arrivai indenne alla fine del corridoio e mi preparavo ad entrare in rotta di scampo a sinistra. Immediatamente prima di uscire dalla zona calda fui colpito. Una scarica di adrenalina mi fece letteralmente rimbalzare sul seggiolino nonostante l’imbracatura. Due o tre secche botte come di una mazza di ferro che colpisce un barile, sbalzarono l’aereo di qualche metro fuori dalla sua traiettoria ma era ancora governabile. Il motore ancora buono sospingeva il velivolo verso la salvezza. Un rapido controllo agli strumenti e fui attanagliato da un altra scarica di terrore. Immediatamente guardai all’esterno per trovare conferma di quello che la strumentazione segnalava. Un’abbondante fuoriuscita di carburante dai serbatoi colpiti evidentemente dalla contraerea. Ridussi immediatamente motore e contattai per radio il comando di gruppo, che con la collaborazione dell’aereo ALRD gestivano la mia situazione. Non fui in grado di specificare a che rateo il carburante fuoriusciva dal mio aereo danneggiato, ma il comando di gruppo mi dirottò sulla base dei caccia di Damietta che era più vicina alla mia posizione. Mi ci volle un po’ di tempo per realizzare, facendo due conti tra la velocità di diminuzione del carburante e la distanza che ancora mi separava dalla pista di atterraggio, che sarei arrivato a destinazione praticamente al limite. E così fu. Riuscii a salvare l’aeroplano atterrando praticamente con le ultime gocce di carburante rimasto. Posso dire di avere avuto avuto una fortuna sfacciata. Se la virata di scampo l’avessi fatta a dritta invece che a sinistra, avrei dovuto lanciarmi sul canale da qualche parte ed avremmo perduto l’aeroplano. Il Fiat del Tenente Misura fotografato in volo sul deserto del Sinai dal capo squadriglia Maggiore Filzi.